Franco Piccinini: KAFKA È VIVO E LOTTA CON NOI


Quest’anno ricorre il centenario della morte di Franz Kafka, che è nato a Praga il 3 luglio 1883 ed è morto a Kierling il 3 giugno 1924. Per questa ricorrenza in molti si sono premurati di commemorarlo e celebrarlo. Lo farò anch’io, ma alla mia maniera (non fosse altro per non dovermi confrontare con coloro che hanno capacità letterarie e critiche superiori alle mie) cercando i segni della sua influenza nella letteratura più recente, sia colta che popolare. Lo scrittore era boemo ma di lingua tedesca, essendo nato in quel territorio dell'Impero austro-ungarico che sarebbe divenuto la Repubblica Cecoslovacca, indipendente a partire dal 1918 (proprio l’epoca in cui cominciò a pubblicare i suoi primi lavori). Era ebreo ma non aveva interesse per la pratica religiosa, tanto che in sinagoga si recava, con il padre, solo per le quattro principali festività dell’anno (non che questo, per gli antisemiti, cambiasse qualcosa). La maggior parte della sua opera sviluppa temi e simboli che parlano di alienazione, d’oppressione fisica e psicologica, e li esprime attraverso personaggi in preda ad angoscia esistenziale e conflitti tra genitori e figli, oppure travolti da labirinti burocratici e trasformazioni surreali. Per quest’ultimo aspetto, oggi è ritenuto una delle maggiori figure della letteratura del XX secolo e tra i maggiori anticipatori del surrealismo e del realismo magico. Ha avuto una profonda influenza non solo sulla letteratura, ma anche sull’immaginazione popolare, tanto da venire utilizzato nei modi più impensati. Non a caso si usa nell’italiano corrente l’aggettivo “kafkiano”. A questo proposito, mi viene in mente un vecchio film di Marco Ferreri, uno dei meno amati dalla critica e dal pubblico, ma non per questo disprezzabile, dal titolo L’Udienza (1971). In questa pellicola il protagonista è uno stralunato Enzo Jannacci, che va a Roma perché vorrebbe avere una udienza privata con il Pontefice (all’epoca era Paolo VI, che aveva da poco concluso il Concilio Ecumenico Vaticano II) . Non riuscendo ad avvicinarsi agli alti prelati per chiedere udienza, finisce per cercare aiuto in un sottobosco romano fatto di nobili dai loschi comportamenti e dalle simpatie fasciste (Vittorio Gassman), escort di lusso (Claudia Cardinale), pretonzoli ottusi e burocrati ed anche un commissario di polizia (Ugo Tognazzi) che dapprima lo sospetta di essere un pericoloso sovversivo e poi si convince che è solo un poveraccio. Ad ognuno che incontra ripete come un mantra la frase: «Mi trovo in una 1 situazione Kafkiana». Dopo mesi e mesi di attesa, verso la fine del film riesce a parlare con un cardinale e gli sussurra all’orecchio ciò che vorrebbe dire al Papa. Il prelato si commuove fino alle lacrime, ma anche stavolta la sospirata udienza non arriva. Alla fine il povero Jannacci tenta di scavalcare le transenne in San Pietro per lanciarsi direttamente verso il Papa, ma non ci riesce e fa una brutta fine: muore sotto il colonnato del Bernini, stroncato da una polmonite. Le atmosfere e i personaggi del film richiamano in maniera puntuale gli archetipi dello scrittore praghese, ma c’è un motivo ben preciso: soggetto e sceneggiatura furono scritti da Marco Ferreri con la precisa intenzione di girare un film tratto da Il castello (Das Schloss, 1922) di Kafka. Impossibilitato per questioni di diritto d’autore, il regista decise di riadattare la vicenda ai giorni nostri, puntando il dito contro la burocrazia moderna e sostituendo l’Impero Austro-Ungarico con la Chiesa Cattolica. Per la verità Kafka voleva rappresentare la solitudine e il senso di diversità degli ebrei come lui nella Mitteleuropa. Restano comunque nel film altre caratteristiche idee kafkiane, come l’estraneità del protagonista rispetto alla famiglia e alla comunità che lo circonda, oppure l’impotenza del singolo di fronte al mondo e alla sua incomprensibile burocrazia. Nella moderna narrativa parecchi concetti di Kafka sono stati ripresi e ampliati, fino al punto che talvolta non se ne riconosce più l’origine. Alcuni casi sono fin troppo evidenti: si pensi solo per un attimo alla produzione romanzesca di Dino Buzzati. La fortezza ai margini del Deserto dei Tartari, dove i soldati attendono per tutta la vita un nemico che forse non arriverà mai, oppure la Clinica dai sette piani, dove il malato scende di un piano ogni qual volta la sua malattia si aggrava, finché arriva al pian terreno e muore, sono Kafka allo stato puro. Ma non occorre limitarsi ai casi più noti, come quello di Buzzati. Un buon esempio per iniziare può essere il brevissimo racconto Il messaggio dell’Imperatore (Eine kaiserliche Botschaft, 1918): uno dei primi di Kafka, scritto durante la prima Guerra Mondiale. Una persona comune sta aspettando l’arrivo di un messaggero che gli porterà le ultime volontà dell’Imperatore morente, ma questo non arriverà mai perché ostacolato da difficoltà e barriere, rendendo inutile ogni sforzo da parte del messaggero stesso. Qui c’è già molto del pensiero e della poetica di Kafka: l’attesa di qualcuno che non arriverà; il contrasto tra l’enorme potere rappresentato dell’imperatore morente e la semplicità minuscola del suo suddito, sperduto nel più remoto angolo dell’impero; il mistero che non viene svelato. Il destinatario (e con lui il lettore) non saprà mai quale verità conteneva il messaggio dell’imperatore. Oltre ai significati simbolici, faccio notare che questo messaggero che non arriverà mai a destinazione, perso per le strade dell’impero, si ispira a un concetto 2 matematico, che ha origine nel cosiddetto paradosso di Zenone. Secondo il filosofo greco Zenone di Elea, se il Piè Veloce Achille, sfidando una tartaruga in una gara di corsa, dovesse concederle anche solo qualche metro di vantaggio iniziale, non riuscirebbe mai a raggiungerla. Una delle più interessanti spiegazioni di questo paradosso appartiene a Jorge Luis Borges, che la giustifica così: « Achille, simbolo di rapidità, deve raggiungere la tartaruga, simbolo di lentezza. Achille corre dieci volte più svelto della tartaruga e le concede dieci metri di vantaggio. Achille corre quei dieci metri e la tartaruga percorre un metro; Achille percorre quel metro, la tartaruga percorre un decimetro; Achille percorre quel decimetro, la tartaruga percorre un centimetro; Achille percorre quel centimetro, la tartaruga percorre un millimetro; Achille percorre quel millimetro, la tartaruga percorre un decimo di millimetro, e così via all'infinito; di modo che Achille può correre per sempre senza raggiungerla». Si tratta di una intuizione matematica che portò molti secoli dopo Newton e Leibniz a sviluppare il calcolo infinitesimale, mentre Borges l’ha sfruttata in alcuni racconti: in particolare ricordo qui Il giardino dei sentieri che si biforcano (El jardin de senderos que se bifurcan, 1941), dove chi entra non potrà uscire mai più, perché il labirinto continua ad espandersi. Altro racconto dalle atmosfere kafkiane è I sette messaggeri (1942) di Buzzati. In un regno immaginario, il figlio del re decide di raggiungere il confine del regno, portando con sé sette messaggeri per mantenersi in contatto con la capitale. A causa della distanza crescente, i messaggeri impiegano sempre più tempo per raggiungere la città e tornare con lettere e notizie, tanto che, quando queste raggiungono il principe, otto anni dalla sua partenza, sono ormai illeggibili e superate, mentre il confine del regno sembra irraggiungibile. Un altro interessante racconto di questo tipo appartiene a James G. Ballard ed è praticamente l’unico, nell’intera produzione dell’autore, che sia ambientato nello spazio interstellare. Si intitola Rapporto su una stazione spaziale non identificata (Report on an Unidentified Space Station, 1982). Qui un gruppo di astronauti entra in una stazione spaziale aliena abbandonata e scopre rapidamente che il suo interno è molto più vasto dell’esterno. La stima delle dimensioni della stazione viene da loro continuamente rivalutata, poiché mentre ne esplorano gli interni sembra raggiungere le dimensioni di un grande asteroide, poi di un piccolo pianeta. Le stanze, le passerelle e i corridoi sembrano moltiplicarsi e dilatarsi all’infinito, creando uno spazio senza nessuna conclusione visibile, in cui gli esploratori si perdono per sempre. Può sembrare la riproduzione, su scala più piccola, di ciò che accade nel nostro universo secondo le più moderne teorie sulla sua espansione, ma dubito che l’autore avesse in mente questo. Invece il titolo di Ballard si ispira al noto racconto di Edgar Allan Poe Manoscritto trovato in una bottiglia mentre la stazione spaziale 3 trova i suoi riferimenti letterari in Borges e, specificamente, in storie come La biblioteca di Babele e il già ricordato Il giardino dei sentieri che si biforcano: del resto Borges, assieme a Alfed Jarry, al surrealismo e al dadaismo, sono sempre stati i suoi modelli. Ma anche Franz Kafka, evidentemente. Un altro scrittore che ha preso spunto da questo racconto di Kafka è Robert Sheckley (di origine ebreo – russa, come Asimov). Nei suoi brevi racconti degli anni Cinquanta descriveva una società che allora sembrava fantascientifica e lontana, mentre adesso è sul punto di realizzarsi. I temi affrontati erano il consumismo esasperato, la mercificazione non solo del sesso ma persino dei sentimenti, i persuasori occulti nella pubblicità, lo strapotere dei mezzi d’informazione, l’arroganza del potere, l’indifferenza e la crudeltà degli spettatori televisivi e la spettacolarizzazione della violenza. Sembra voler combinare l’angoscia metafisica di un Franz Kafka con la giocosità nonsense di un Lewis Carroll. È probabile che, per via delle sue origini, sia influenzato dal tipico umorismo yiddish, la qual cosa lo fa inserire di diritto in una tradizione che va dai fratelli Marx a Woody Allen, passando per Jerry Lewis e Mel Brooks. Si può fare dell’umorismo con la fantascienza oppure sulla fantascienza: Sheckley è stato maestro nel gestire entrambe le modalità e per questo motivo il collega Brian Aldiss una volta lo descrisse come “Voltaire-e-soda.” Il romanzo Scambio mentale (Mindswap, 1966), fu pubblicato da Mondadori nella sua collana dedicata ai Nuovi Scrittori Stranieri; l’inizio è tipicamente fantascientifico, ma il resto molto meno. Il protagonista accetta di scambiare la sua mente con un marziano, per una sorta di avventura turistica del futuro.1 Ma il suo corpo non gli viene restituito e così deve andare in giro per altri pianeti a cercare di recuperarlo, sapendo che morirà, se non rintraccia la persona che gli ha tolto il corpo. La conclusione, apparentemente un classico lieto fine, è più simile a uno sberleffo al lettore, una presa in giro. Perché il mondo dove il protagonista decide di fermarsi definitivamente è diversissimo da quello di partenza. Ma lui sceglie di ignorarlo: tanto, il vero ritorno è impossibile e il pianeta Terra (quello vero) è perduto per sempre. Quanto di kafkiano c’è in tutto questo!


Franco Piccinini (Asti, 1954), si è laureato a Pavia e fino a poco tempo fa ha esercitato la professione di medico. Grande esperto e cultore di fantascienza, ha pubblicato i romanzi "Ritorno a Liberia" (tratto dal suo primo racconto), "Il tempo è come un fiume", il saggio "Scienza medica e fantasie scientifiche" (finalista al Premio Italia 2012 e vincitore del Premio Vegetti 2018), oltre a vari articoli su Nova SF* e racconti su Futuro Europa. Di recente ha pubblicato il saggio "Mondi Sotterranei" per i 700 anni di Dante. Nel 2011 ha iniziato a collaborare con l'editore Solfanelli e con Delos Digital. E' un grande amico della Biblioteca Bonetta e ha precedentemente scritto per il nostro sito anche i seguenti contributi:

 

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