Adelaide Baldo - Dalla parte dei bambini


Riportiamo qui alcune riflessioni su come bambine e bambini vivono la situazione di isolamento sociale forzato che li priva di esperienze di aggregazione spontanea o organizzata, “parte fondamentale dello sviluppo psichico dei futuri cittadini e cittadine”.

Queste considerazioni, lette da Adelaide Baldo in una videoregistrazione del 21 aprile scorso disponibile sul sito Internet dell’associazione culturale bresciana “Cultura libera” , vengono da lei sviluppate anche in un più ampio saggio preparato per il libro a più voci “Etica e pandemia”, di prossima pubblicazione a cura di Giorgio Sandrini, professore ordinario di Neurologia all’Università di Pavia.

Di Adelaide Baldo, medico psicoterapeuta con formazione analitica (in particolare sui gruppi) e interessata ai temi dell’identità di genere “non solo come parte del percorso analitico, ma come parte di prassi politiche e sociali” e che in una breve autopresentazione scrive di sé: “Amo l’arte in tutte le sue forme. La mia autocura consiste nel suonare il pianoforte e parlare con il mondo vegetale”, la Biblioteca civica “Bonetta” aveva presentato l’anno scorso, nell’area “recensioni” del sito, il libro Per amore e desiderio. Lettera all’uomo che sarai (Liberedizioni, Brescia 2017).


DALLA PARTE DEI BAMBINI

Di Adelaide Baldo
medico psicoterapeuta

Vorrei subito dire una cosa per togliere di mezzo eventuali fraintendimenti: non sono contraria all’isolamento per partito preso. Non ho sufficienti competenze per potermi esprimere su cosa vada o non vada fatto. Sono anche convinta che le disposizioni vadano rispettate.

Parto dal presupposto che sia necessario avere pazienza e sopportare l’isolamento sociale che ci viene imposto; proprio perché ritengo che le disposizioni vadano rispettate, ritengo che interrogarsi su cosa stia accadendo nella mente dei bambini sia doveroso anche per adottare comportamenti adeguati.

Mi fa molto piacere che proprio in questi giorni se ne parli finalmente anche sui giornali e che in radio siano state dedicate a questo tema alcune trasmissioni.

Un gruppo di parlamentari, soprattutto donne parlamentari, hanno anche presentato in questi giorni alcune proposte da introdurre in un “decreto bambini” che affronti regole dedicate a loro, proprio in considerazione della specificità dell’argomento.

Ai livelli istituzionali si sta iniziando a discutere su come il sistema scolastico possa comunque adempiere alla sua funzione in modo coerente e utile e si sta ragionando su come riaprire le scuole rispettando la sicurezza sanitaria ma anche il diritto all’istruzione e alla socializzazione. Segnali importanti.

Al di là di quello che verrà deciso, è importante che tutti noi, non solo chi ha figli, dedichi qualche pensiero a questo tema perché è un tema che riguarda tutti, la società nel suo insieme e non solo le famiglie che hanno figli.

Proviamo perciò a partire da un concetto che non viene mai abbastanza detto. Quanto meno non nella maniera giusta.

Il concetto è molto semplice: i bambini sono il nostro futuro.

Ce ne accorgiamo solamente per dire che i conti INPS sono in crisi e sembra che il vero motivo per fare tanti figli è per poter pagare le pensioni.

Mi dispiace anche quando sento dire che abbiamo bisogno di extracomunitari perché così i nuovi bambini possono contribuire in futuro al risanamento di questi conti.

Vero è che la sostenibilità del welfare dipende dalle contribuzioni da lavoro, quindi non nego l’importanza di queste considerazioni demografiche.

Tuttavia mi piacerebbe che al centro di una cultura democratica ci fosse, sempre, l’attenzione alla qualità della vita, che è innanzi tutto vita di relazione.

Tornando ai bambini mi chiedo se in questo momento ci si stia preoccupando della qualità della loro vita e della qualità delle loro relazioni.

Non ci sono ancora studi e dati su come i bambini stanno vivendo questo strano momento.

Provo a mettermi nei panni di un bambino o una bambina di sei, otto, dieci, dodici anni.

Non considero i bambini più piccoli perché lì è un discorso ancora diverso.

Provo a immaginare cosa può significare trovarsi di colpo, da un giorno all’altro, senza scuola, senza sport, senza amici, senza giochi al parco, senza incontri alla scuola di musica, in parrocchia, in qualunque altro luogo dove si stava con “gli altri”.

Forse all’inizio può essere stata una specie di vacanza felice: c’era il sole, per qualche giorno si poteva ancora frequentare il parchetto, forse qualcuno poteva godere della compagnia di uno o entrambi i genitori rimasti a casa dal lavoro. E poi?

Provo sempre a mettermi nei panni di un bambino che di sicuro sa benissimo perché questa improvvisa chiusura della vita.

C’è un virus, un pericolo invisibile, che fa paura a tutto il mondo, ma qui da noi è particolarmente aggressivo.

Ci sono molti morti. C’è molto pericolo.

Questo tipo di informazione che emozioni, che pensieri può provocare in un bambino? Paura? Convinzione che il mondo si sia trasformato in una grande minaccia per cui non possiamo più fidarci di nessuno? Moriremo tutti? Morirà il nonno? Morirà la mamma?

Già nei primi giorni abbiamo convinto i bambini a esporre alle finestre i loro disegni con grandi arcobaleni e la scritta “andrà tutto bene”.

Ottimo: bisogna dare fiducia.

Ma qualcuno si è preso la briga di ascoltare i sentimenti dei bambini e delle bambine? I sentimenti veri, quelli che nascono nel buio della sera, che si affacciano nei sogni notturni o che, durante il giorno, si presentano come una nuova colorazione dei gesti, del respiro, del gioco. Credo ci siano ottimi genitori che hanno saputo ascoltare i propri bambini. Ma non tutti i genitori sono ottimi e non per colpa loro: ci sono situazioni dove dietro l’apparente normalità si celano sofferenze familiari, fragilità psicologiche che sono da rispettare.

Le famiglie non sono quelle del mulino bianco.

Le famiglie portano in sé le ferite e le tracce di micro traumi esistenziali che tutti attraversiamo nel corso della vita, a volte difficili da dipanare, aspre come quelle concrezioni rocciose che rendono il cammino difficile.

Io penso a quei bambini che vivono in famiglie dove l’amore che pure c’è non riesce a tradursi in una capacità di ascolto e di parola.

Perché l’amore è cosa complicata e la sintassi dei sentimenti ben gestiti non è sempre facile da applicare, anche con le migliori intenzioni.

Ci sono poi famiglie con problemi davvero gravi di relazione e in questi casi la vita familiare è ancora più difficile. Purtroppo sono situazioni non così poche come vorremmo.

La scuola, lo sport, la vita nelle varie forme aggregative, anche quelle spontanee che nascono al parchetto di quartiere, sono fondamentali elementi equilibratori, luoghi dove si sperimentano differenti modi di guardarsi, di parlarsi, di riconoscersi.

Ecco, questa parola riconoscersi, cioè essere riconosciuti dagli altri e riconoscere gli altri, è la chiave per la costruzione di una personalità sana. E’ l’esperienza di non essre soli nel proprio universo, di trovare confini e contorni senza i quali non possiamo nemmeno costruire quella parola che si chiama IO. L’IO si forma nel confronto con gli altri: confronto non sempre facile, ma sempre fondamentale per la costruzione dell’identità. IO e NOI non sono disgiungibili. Io esisto perché c’è un NOI che mi contiene e che mi dà confini. Nel NOI io trovo le mie peculiarità, la mia identità, vengo riconosciuto come persona separata dagli altri, non confusa con gli altri, ma al tempo stesso sostenuta dagli altri. Perfino le conflittualità sono fondamentali per costruire questo IO.

Ecco perché la scuola è un aspetto così importante, per la vita delle persone, ma anche delle comunità. La scuola come tutte le situazioni di aggregazione sociale a partire dallo sport.

E’ lì che si impara a darsi confini, a delineare la propria psiche sociale.

Certo, la famiglia è la prima società con cui il bambino si confronta, ma il grande salto evolutivo avviene quando il bambino sperimenta ciò che esiste al di fuori, là dove può fare esperienza delle differenze e dei tanti livelli di interazione.

E’ lì che si scopre la propria ricchezza interiore e i vari linguaggi con cui può essere espressa. E’ lì che si scopre quanto può essere bello lavorare con gli altri, fare progetti comuni, gestire i conflitti, sentirsi parte di un insieme più ricco e ampio di quello familiare, fondamentale, ma che da solo non può aprire a orizzonti psichici più ampi.

In questo spazio sociale si formano i futuri cittadini e cittadine consapevoli.

La corporeità è un elemento fondamentale in questa scoperta della propria identità individuale e sociale: i bambini usano il corpo per trasmettere le proprie emozioni e ricevere informazioni dall’ambiente esterno che non potrebbero essere trasmesse con la sola parola. 

Abbiamo tutti fatto esperienza di come la verità dei sentimenti si comunica solo attraverso il corpo. Solo se ho fatto questa esperienza corporeafatta di tatto, calore, odori, suoni – posso poi dare significato alla frase “ti voglio bene”.

Un adulto può gestire anche molto profondamente una relazione a distanza perché ha già nella sua mente il codice corporeo sul quale si costruiscono parole.

Ma un bambino può accontentarsi di uno schermo?

Quando un bambino gioca ha bisogno di poter toccare il corpo dell’amico perché in quel momento riceve le vere informazioni circa la relazione; è dal corpo che provengono i mattoni per costruire il senso delle relazioni. Non a caso il passaggio evolutivo psicologico in questa fascia di età si svolge anche nella capacità di modulare il proprio corpo in coerenza con la situazione. E’ la fase in cui si scopre la pacca sulle spalle, l’abbraccio, anche il gesto scherzoso che sottolinea come si è diventati capaci di contenere pulsioni aggressive e trasformarle in cameratismo.

Quindi, quando parliamo di scuole chiuse, di attività sportive chiuse, è di questo che stiamo parlando.

La didattica a distanza è stata una necessità: a volte ha funzionato a volte no. Non entro nello specifico del problema, ma spiace sentire che viene visto da un punto di vista prevalentemente tecnico: la scuola deve dare certe informazioni, deve insegnare certe cose, deve completare un certo programma; gli studenti devono fare i compiti, devono imparare le cose.

Verissimo. Ma la scuola e tutte le altre situazioni aggregative fanno anche altro e questo altro rischia di non poter essere più recuperato.

La scuola è apprendimento “con” gli altri. E’ sentire la propria mente dentro un contenitore sociale, fatto di menti e di corpi, che collaborano per realizzare il compito comune.

E’ una esperienza collettiva che costruisce l’identità individuali, ma anche quella di gruppo. Direi che è proprio il luogo dove si impara la democrazia attraverso il senso di appartenenza nel rispetto delle differenze.

Io apprezzo moltissimo gli insegnanti che si sono spesi su questo difficile fronte della didattica a distanza, ma sappiamo che non sempre le cose sono andate bene. Ovvio, non si può dall’oggi al domani tradurre in una modalità semantica tanto diversa il senso stesso dell’insegnamento. Perciò quando sento commenti entusiasti per la didattica a distanza in questa fascia di età, già ipotizzando un futuro di scuola in questa modalità, mi preoccupo.

Amo le tecnologie, ma ogni cosa va pensata. E qui si tratta di pensare al diritto dei bambini di fare le esperienze relazionali necessarie al loro sviluppo psichico. Non si tratta di vedere se hanno imparato a usare bene il congiuntivo o le tabelline, ma di pensare al senso sociale delle esperienze in gruppo.

Un gruppo di corpi che si mandano messaggi preverbali non traducibili in parole, ma altrettanto, se non più, importanti della parola stessa.

Questo tempo d’isolamento, che a quanto pare almeno in Lombardia potrebbe essere molto lungo, rischia di privare questa fascia di età di esperienze formative che o si fanno a questa età o non si fanno più. Alcune persone cui ho espresso questi dubbi mi hanno risposto che il mio è un falso problema perché i bambini hanno grandissime risorse. Vero, ma fino a un certo punto. I bambini possono sopportare anche traumi importanti se vengono aiutati a dare senso al trauma.

Se non c’è questo percorso che dà senso, il trauma resta lì, nascosto fra le pieghe della mente. A proposito di trauma quelle stesse persone che mi rassicuravano sulle risorse dei bambini mi hanno anche detto di non dire sciocchezze, che i bambini siriani stanno molto peggio.

Provo un profondo disagio a nominare i bambini siriani ai quali penso ogni giorno, soprattutto quelli finiti nel nulla sociale del campo profughi sull’isola greca di Lesbo, per non parlare di quelli rimasti in Turchia e di cui non sappiamo più nulla.

Vorrei fare per loro qualcosa di risolutivo, ma non posso.

Posso però fare qualcosa per i bambini che qui stanno vivendo una cosa strana che si chiama solitudine d’ufficio.

Non vorrei che questo moralismo secondo il quale si deve minimizzare un problema in nome di uno più grande fosse ancora una volta un modo comodo per non affrontare il problema, né quello piccolo né quello grande.

Io sì, mi preoccupo dei nostri bambini soli nelle loro case non sempre spaziose, non sempre col giardino privato, non sempre con genitori equilibrati e attenti, non sempre con adeguati strumenti per la mente.

Mi chiedo quante ore stanno passando sul cellulare o il tablet a fare giochini ipnotizzanti.

Mi chiedo quali stimoli ricevono oltre alle scarne ore di lezione.

Mi chiedo con chi parlano.

Mi chiedo se i loro pianti – perché so che piangono- vengono accolti o vengono liquidati con un “cosa hai frignone”. Questa non è una mia fantasia: proprio due giorni fa, mentre facevo la fila davanti alla farmacia, da una finestra aperta usciva il pianto di una bambina che dalla voce potrebbe avere avuto cinque o sei anni e la voce del padre che le rifaceva il verso con disprezzo.

Vorrei che questa situazione d’emergenza fosse l’occasione per pensare chi sono i nostri bambini.

Sono innanzi tutto cittadini e cittadine.

Che in futuro voteranno, avranno famiglie, figli, colleghi di lavoro.

Vorrei che a questo si pensasse, che la loro formazione è importante quanto la loro istruzione. Vorrei che si trovasse il modo di farli sentire importanti in questo momento, che sentissero che tutti pensiamo a loro e che anche loro stanno facendo un grande sacrificio, anche più degli adulti, e che noi adulti siamo grati e li vogliamo ringraziare.

Che vorremo sentire le loro voci, conoscere i loro pensieri, perché li amiamo. Li amiamo tutti assieme, come comunità, non solo perché nostro figlio o nostro nipote.

La loro cura non è questione di famiglia: ci riguarda tutti.

I bambini non vogliono fare la corsetta attorno al condominio perché non sono cagnolini che si accontentano di questo.

I bambini vogliono essere riconosciuti nei loro pensieri e sentire che li consideriamo parte della comunità.

Al proposito devo fare una piccola deviazione su un altro argomento comunque attinente a quanto stiamo dicendo.

Sembra che la soluzione alla cura dei bambini sia il tele lavoro dei genitori. Soprattutto delle madri. Sicuri che sia così?

In parte può essere vero, ma a questo punto sorgono due nuove domande. La prima riprende quanto abbiamo detto fin qui e cioè: dei bambini si deve avere cura (e allora valgono tutte le cose dette prima) o basta che ci sia un adulto in casa?

La seconda è: quale genitore dovrebbe accedere al tele lavoro? Non è domanda da poco. Ho la sensazione che si rischi di scivolare nella convinzione che “ovviamente” sarà la mamma a stare a casa col tele lavoro.

L’argomento particolarmente caldo in un momento in cui molti pensano con nostalgia ai periodi passati in cui le donne stavano in casa a fare le casalinghe.  Facciamo attenzione perché non vorrei che questa opportunità del tele lavoro per accudire i figli (ma se il tele lavoro è lavoro, come si fa contemporaneamente ad accudire i figli?) si trasformasse in una prova generale di un ritorno al passato, prima ancora che il lavoro femminile come diritto si sia affermato pienamente.

Dobbiamo fare attenzione a non cadere nello stereotipo della famiglia composta da padre madre figli nonni, innanzi tutto perché non tutte le famiglie sono così composte. Inoltre perché non tutti i lavori si possono fare in smart working.  Perché non tutti hanno i nonni disponibili a tenere i nipoti, vuoi perché abitano lontano, vuoi perché sono ammalati o morti, vuoi perché ancora lavorano essi stessi.

Soprattutto perché, come già detto prima, la scuola, come lo sport e tutte le realtà di aggregazione spontanea o organizzata, sono parte fondamentale dello sviluppo psichico dei futuri cittadini e cittadine.

Mi auguro perciò che tutti assieme facciamo riflessioni su questo delicato e importante argomento. 

Ricordiamo che la democrazia la facciamo noi con i nostri pensieri.


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