Fotocopie, duplicati e cloni

Fotocopie, duplicati e cloni

Il recente annuncio della clonazione di due scimmiette in un laboratorio cinese (per la precisione due macachi, di nome Zhong Zhong e Hua Hua) ha di nuovo suscitato l’interesse del pubblico verso questa pratica sperimentale. In realtà, gli scienziati avevano già provato in passato a riprodurre degli esseri viventi mediante la clonazione: ricordo qui in particolare il caso clamoroso della pecora Dolly, la cui clonazione venne annunciata nel 1997 e di cui si discusse in tutto il mondo. Pare che le scimmie siano state ottenute con la stessa tecnica di Dolly, ma questa volta siamo di fronte alla moltiplicazione di un animale il cui aspetto è molto più simile a quello dell’uomo e questo suscita certamente inquietudine. Se poi riflettiamo sul fatto che i primati e gli esseri umani possiedono un genoma quasi identico ed hanno in comune il 95% dei loro geni, allora l’inquietudine diventa vera preoccupazione: perché il prossimo passo sarà, evidentemente, la clonazione degli esseri umani. Ricordo che, solo un anno dopo la nascita di Dolly, alcuni ricercatori coreani annunciarono di aver dato inizio alla clonazione di un essere umano partendo da un ovulo modificato geneticamente, ma di essersi poi fermati quando l’embrione era formato da poche decine di cellule, distruggendo poi tutto. Vero o falso? Probabilmente allora si trattò solo di una bufala, forse un sistema per farsi dare da qualche ricco sponsor più finanziamenti per la ricerca. Il risultato odierno è assai più concreto e quindi mette più paura.

Molti scrittori del passato sono stati affascinati dalle implicazioni dell’idea che si possa duplicare un essere umano, soprattutto all’epoca del romanzo gotico. I metodi da loro descritti per duplicare l’uomo erano però piuttosto fantasiosi e improbabili. C’erano per esempio gli automi: esseri meccanici, costruiti da artigiani che sembravano più orologiai che scienziati. Ricordo qui la bambola Coppelia in “L’uomo della sabbia” (Der sandmann, 1817) di E.T. A. Hoffman, “Il giocatore di scacchi di Maelzel” (Maelzel's Chess-Player, 1836) di E. A. Poe, “La creatura di Moxon” (Moxon’s master, 1909) di A. Bierce, l’isola popolata di simulacri in “L’invenzione di Morel” (La invenciòn de Morel, 1941 )di A. Bioy Casares, e così via. In teoria, in questa categoria si potrebbe inserire anche il nostro Pinocchio. Di certo nella fantascienza moderna questi automi sono diventati i robot di Asimov e Sheckley, oppure gli androidi di Philip K. Dick (il quale amava definirli proprio “simulacri” – la parola replicante è una invenzione cinematografica).

Un altro metodo di duplicazione era l’idea del doppleganger, tipica del romanticismo tedesco, secondo la quale per ogni individuo esiste da qualche parte nel mondo una sua copia conforme, ma dotata di caratteristiche spirituali opposte: insomma, una sua immagine speculare. “William Wilson” (1839) è uno dei più famosi racconti di Poe e tratta proprio di questo.

Da ultimo va ricordata la figura dell’homunculus, creatura artificiale, realizzata in modo misterioso dagli alchimisti. Furono in molti a sostenere di averne creato uno o più di uno: da Raimondo Lullo a Paracelso, fino al cosiddetto “mago” Aleister Crowley. Un bell’esempio letterario di omuncolo è Brown Jenkin, l’orrida creatura che perseguita in sogno il protagonista de “I sogni nella casa stregata” (The dreams in the witch-house, 1933) di H. P. Lovecraft. Ma probabilmente il più noto di questi omuncoli è il golem, un gigante di argilla che veniva animato grazie ai segreti alchemici contenuti nella Qabbalah ebraica. Dal punto di vista letterario, il golem di Praga è divenuto una figura centrale in vari romanzi, da quello di Gustav Meyrink a quello di Isaac B. Singer. Secondo la leggenda ebraica, venne animato per difendere il suo popolo dal rabbino Yehuda Loew ben Bezalel, figura storica realmente esistita nel rinascimento, famoso cabalista e amico del grande astronomo Tycho Brahe.

Tutto sommato, la più moderna e lungimirante degli autori dell’Ottocento è stata Mary Shelley, che scelse di far animare la creatura di Frankenstein dal risultato di una ricerca scientifica, anziché dalla Cabala, dalla magia nera o dall’alchimia. Ma tutto questo ha ben poco a che vedere con la clonazione. Stranamente, la letteratura mainstream si è occupata pochissimo di un tema del genere, lasciando sola ad interessarsene la letteratura di fantascienza, che ne ha analizzato tutti gli aspetti. Non posso ora fare un elenco di tutte le opere che si sono occupate del tema, per cui cercherò di indicare solo alcune delle principali. Chi volesse approfondire, può consultare “Il sosia, il doppio, il replicante” di G. Panella (Elara Libri, 2009), oppure “I falsi Adami” di G. P. Ceserani (Feltrinelli, 1969). Oppure può leggersi il capitolo ”Fotocopie, duplicati e cloni” del mio saggio “Da Frankenstein a Star Trek, scienza medica e fantasie scientifiche” e poi consultare la mia bibliografia sull’argomento. Qui posso ricordare solo alcuni dei titoli più interessanti.

La domanda principale è: se possiamo duplicare mediante clonazione un animale, oppure un uomo, che cosa ne facciamo?

La risposta più concreta e più facile da realizzare è la seguente: pezzi di ricambio. Provate a pensarci: per ogni essere umano si potrebbero ottenere una o più copie in grado di fornire organi e tessuti intatti, da sostituire al bisogno. Badate che questa non è più fantascienza: qualcuno ci sta concretamente pensando. In fondo, le tecniche di trapianto ci sono già da tempo e sono abbastanza semplici. Il vero problema è la reazione di rigetto, ma con un clone questo non avverrebbe, come hanno provato i trapianti fra gemelli identici. Purtroppo questi cloni sono pur sempre esseri viventi, magari dotati di coscienza. Che ce ne facciamo dopo che li abbiamo “smontati”? Ci sono almeno due romanzi importanti su questo argomento: “Ricambi” (Spares, 1994) di M. Marshall Smith e “I segreti dello scorpione” (The house of the Scorpion, 2002) di Nancy Farmer, entrambi raccontati dal punto di vista del clone, che non ci sta a fare da fornitore di pezzi di ricambio. Le spaventose implicazioni morali di una simile operazione ci riportano ovviamente al peccato di hybris del dottor Frankenstein di Mary Shelley o del dottor Jekyll di Stevenson. Forse è questo che ha spinto lo scrittore scozzese di origine giapponese Kazuo Ishiguro, recentemente insignito del premio Nobel per la letteratura, ad occuparsene nel suo romanzo “Non lasciarmi” (Never let me go, 2005). Sono protagonisti due ragazzini, che vengono educati nel più perfetto dei college inglesi come se fossero destinati a far parte della futura classe dirigente britannica: solo nelle ultime pagine scoprono qual è il vero destino loro riservato.

Una delle risposte più clamorose alla questione di che cosa fare con i cloni è stata quella offertaci dal medico - scrittore Michael Crichton nel suo romanzo “Jurassic Park” (1990). L’autore, da poco scomparso, ipotizzava che si potesse trovare del sangue fossile di dinosauro, con il DNA ancora intatto, all’interno di un insetto imprigionato nell’ambra. Da qui, parte un grande progetto di ricostruzione dei grandi rettili del passato, che si auto-finanzia grazie alla trasformazione della riserva che li custodisce in un parco dei divertimenti. Rispetto al film che ne ha tratto Steven Spielberg, il romanzo appare molto più accurato e documentato dal punta di vista scientifico, pur senza mai perdere di vista la necessità di intrattenere il lettore.

Una volta stabilito che da una cellula si può ricostruire un essere vivente complesso come un dinosauro, perché non pensare a fare lo stesso un uomo? E soprattutto: per farne che? La scienza medica risponde che serve per la ricerca di soluzioni per malattie oggi incurabili, mediante il trapianto di geni, di tessuti o di organi. Ma c’è il fondato pericolo che la risposta sia di altro tipo: mano d’opera a buon mercato. La fantascienza ha spesso ipotizzato che tecniche di manipolazione genetica o di clonazione potessero venire utilizzate per produrre esseri umani di serie B, privi di diritti, da utilizzare come lavoratori, o come schiavi, o come soldati. Oltre al classico “Mondo Nuovo” (Brave new world, 1932) di Aldous Huxley, si possono citare “Fabbricanti di schiavi” (A for anything, 1957) di Damon Kight e “Torre di cristallo” (Tower of glass, 1970) di Robert Silverberg. E per essere certi che non si ribellino, si potrebbero dotare i cloni di una data di scadenza molto breve, quella che nel gergo degli economisti si chiama “obsolescenza programmata” e che ritroviamo nei replicanti di “Blade Runner”. In particolare, l’idea di mandare a combattere i cloni al posto dei veri esseri umani ha colpito molto la fantasia degli scrittori e degli sceneggiatori. Come nel film “Universal soldier” di Peter Hyams, dove il legnoso e inespressivo Jean Claude Van Damme si rivela particolarmente adatto a interpretare il soldato resuscitato e mandato nuovamente a combattere. Anche nella saga cinematografica di Guerre Stellari, ad un certo punto, compare un intero esercito, composto da centinaia di migliaia di cloni. Dal punto di vista letterario va ricordato in particolare “Giù tra i morti” (Down among the dead men, 1954) di William Tenn, dove i soldati vengono più volte resuscitati e ricostruiti, per essere di nuovo spediti a combattere. L’unica loro speranza è di essere disintegrati da una bomba, in modo che il loro corpo non possa essere più rigenerato. Questo è l’unico caso dove la letteratura mainstream è arrivata per prima: il romanzo di Tenn, infatti, mi ha ricordato molto da vicino “La ballata del soldato morto” (Legende vom toten soldaten) di Bertolt Brecht.

Da ultimo, bisogna accennare ai romanzi in cui famosi personaggi storici del passato vengono resuscitati con questo sistema. Ce ne sono moltissimi. C’è chi ha proposto di resuscitare Mozart e chi John Lennon, chi Mussolini e chi Tommaso Moro. Uno dei primi a parlarne, tra gli scrittori di fantascienza, è stato A. E. Van Vogt nel suo romanzo “Il mondo del Non-A” (The world of Null-A, 1945) e nei suoi seguiti. Il suo protagonista Gilbert Gosseyn ha clonato se stesso e ha disseminato copie del proprio corpo in vari punti della Terra e del sistema solare. Quando muore, la sua mente si trasferisce in un altro dei suoi corpi, tenuti in animazione sospesa, così che Gosseyn è pronto a ricominciare. Un sistema ingegnoso, che gli consente di essere virtualmente immortale. Molti critici hanno liquidato l’idea come una infantile fantasia di potere, ma in realtà l’autore aveva semplicemente una grande fiducia nel futuro e nella scienza. Basta pensare che scriveva alla fine della seconda guerra mondiale, quando la genetica era ferma a personaggi come Linneo e Mendel e solo visionari come Robert Goddard pensavano di salire su un razzo per andare nello spazio. Oggi abbiamo decodificato il genoma umano, siamo stati sulla Luna, parliamo seriamente di colonizzare Marte e abbiamo già clonato dei mammiferi: e sono trascorsi solo settant’anni! In pochi hanno però compreso che un individuo non è formato solo dai suoi geni, ma viene plasmato dalle sue esperienze di vita, da come lo educano i genitori, dalla cultura in cui cresce, dagli incidenti e dalle malattie che subisce, dagli incontri che fa, dai libri che legge, e così via. Bisognerebbe poter fare un back up del cervello, così come si fa della memoria di un computer, per poi poterlo installare nel cervello “vergine” del clone (questo è il punto più debole dell’idea di Van Vogt). Il primo ad aver intuito questo limite è stato un altro scrittore di fantascienza, Theodore Sturgeon, nel suo breve romanzo “Se speri, se ami” (When you care, when you love, 1962). Uno dei pochi a seguirlo su questa strada è stato Ira Levin, noto scrittore ebreo-americano, nel suo romanzo”I ragazzi venuti dal Brasile” (The boys from Brazil, 1976). Qui si ipotizza che Mengele, il cosiddetto “dentista di Auschwitz”, sia riuscito a fuggire in Brasile portando con sé alcune provette con dei campioni di tessuti di Hitler. Grazie al denaro accumulato derubando gli ebrei e al sostegno di “Odessa” , l’organizzazione segreta dei gerarchi nazisti in esilio, Mengele riesce a riprodurre alcuni cloni di Hitler e li affida segretamente in adozione ad alcune famiglie sparse per il mondo. Dopo di che si occupa di far vivere a questi ragazzi le stesse esperienze del giovane Adolf: la morte prematura dei genitori, la passione per la pittura, il carcere, e così via. L’idea è che in questo modo almeno uno dei ragazzi acquisti il carattere e i comportamenti del furher. Ma questa storia non è l’esempio più estremo: lo scrittore americano James Beauseigneur ha scritto una trilogia di romanzi dal titolo “A sua immagine” (In his own image – The Christ clone trilogy, 2003), in cui immagina che sulla Terra del futuro compaia addirittura un clone di Gesù Cristo, grazie ad alcune cellule sanguigne prelevate dalla Sindone. Naturalmente appare nel corso della narrazione anche un Anticristo, e la battaglia di Armageddon può avere inizio. L’opera, pur non contenendo nulla di realmente blasfemo, ha suscitato parecchie polemiche e questo le ha impedito di arrivare al successo che probabilmente meritava.


Testo a cura di Franco Piccinini, medico e scrittore, autore di “Da Frankenstein a Star Trek, scienza medica e fantasie scientifiche”, Edizioni della Vigna, 2016

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