Duecento, ma non li dimostra

Duecento, ma non li dimostra

Dal Gotico alla Fantascienza

Ammettiamolo. Per quanto abbiano una rilevanza storica, nessuno rileggerebbe oggi le opere della signora Aphra Behn, (Kent 1640 - Londra 1689), considerata il precursore del romanzo inglese, oppure “Caleb Williams” (1794), romanzo a sfondo sociale del reverendo William Godwin, padre di Mary Shelley. A meno che non vi sia costretto per motivi di studio. Al contrario, sebbene la prima pubblicazione del romanzo “Frankenstein – ovvero il Prometeo moderno” sia avvenuta nel marzo del 1818, esattamente duecento anni fa, il romanzo di Mary Shelley è ancora perfettamente leggibile e continua ad attrarre nuovi lettori. A renderlo attuale sono diversi fattori. Proverò ad indicarne alcuni. Per prima cosa, va notato che la giovanissima autrice del romanzo decise di utilizzare, come metodo per dare la vita alla creatura artificiale da lei inventata, le più avanzate ricerche scientifiche dell’epoca. Il suo amico Lord Byron l’aveva sfidata a scrivere una storia che incutesse paura, seguendo la moda imperante dei romanzi gotici, ma con questa scelta lei si spostò su un altro piano, dando inizio ad un utilizzo delle nozioni scientifiche in letteratura che oggi chiamiamo science fiction, ovvero fantascienza. Non era una scelta scontata, né facile. Fino a quel momento, il Romanticismo, soprattutto nella sua forma più dedita al soprannaturale chiamata gothic novel, si era spesso occupato di resuscitare cadaveri, o di dar vita a creature artificiali. Si andava dagli automi meccanici (come la Coppelia di E. T. A. Hoffman o il giocatore di scacchi di Poe) agli zombi e alle mummie redivive (come nelle storie di Teophile Gautier e Conan Doyle) per arrivare fino agli omuncoli creati nell’antro di uno stregone o nel laboratorio di un alchimista, o ancora grazie alle segrete conoscenze della Cabala (come nel caso del Golem). Per quanto incutessero paura, erano creature fasulle, babau inventati per spaventare i bambini, e progressivamente hanno perduto la loro aura oscura e spaventosa. Leggerne oggi ci dà un brivido, ma certo non ci può inquietare più di tanto. Il revival attuale di spettri, licantropi, vampiri e mostri di vario genere, legato a generi come “new weird” e “urban fantasy” è destinato a un pubblico giovane ed ha altri significati, che non è qui il caso di analizzare. Ma il mostro di Frankenstein è animato dalla scienza, una cosa molto concreta, di cui già nel primo Ottocento si misuravano gli effetti benefici ma anche i grandi pericoli. E questo sì, che metteva e ancora mette paura.

La scienza del tempo

Quella era l’epoca in cui Galvani aveva annunciato la sua scoperta della cosiddetta “elettricità animale”, vale a dire la possibilità di far muovere i muscoli delle rane morte mediante piccole scosse elettriche, facendole saltare come se fossero ancora vive. Da qui a pensare che forse nell’elettricità si nascondeva il segreto della vita il passo è breve. In realtà, benché sia vero che il cuore e i muscoli si muovono grazie ad una attività di tipo elettrico, la faccenda è molto più complessa. Molti scienziati dell’epoca, tra cui Alessandro Volta, si mostrarono giustamente scettici sulle scoperte di Galvani: l’esperimento era facilmente riproducibile, ma le spiegazioni non erano troppo convincenti. Iniziò così una polemica tra l’Università di Pavia (dove insegnava Volta) e quella di Bologna (dove operava Galvani), ma questo non fece che aumentare la risonanza della scoperta e diffonderla in tutta Europa, fino alla lontana Inghilterra. Mary Shelley apparteneva a una famiglia di altissimo livello culturale e conosceva di persona molti scienziati e medici del suo tempo, che stavano approfondendo le scoperte italiane. Tra questi il famoso Humphry Davy e James Lind (che era anche suo vicino di casa). Fu da questo illustre vicino che prese l’idea di animare un corpo morto grazie alla scienza. In realtà nel romanzo non si parla mai esplicitamente di elettricità: tutt’al più si cita nelle ricerche del dottor Frankenstein il “galvanismo”. Anche la scienza in generale non viene chiaramente nominata: la Shelley preferisce parlare di “filosofia naturale” (che nell’ampolloso linguaggio dell’epoca vittoriana è comunque sinonimo di scienza…). L’uso dell’elettricità divenne esplicito solo molto più tardi, nella versione cinematografica; di fatto, ci ricordiamo tutti delle scariche elettriche che danno la vita al mostro grazie al film di James Whale del 1931. Ma non bisogna pretendere troppo dalla scrittrice: eravamo alla fine dell’Illuminismo, l’era industriale stava appena decollando e la scienza moderna muoveva solo i suoi primi passi.

L’invidia degli dei

L’interpretazione più comunemente accettata è che la trama del romanzo rifletta il concetto greco della “Hybris”: il peccato di orgoglio per il quale gli uomini si mettono contro i propri dei, scatenando l’inevitabile punizione. Per i latini, questo stesso concetto era detto “invidia deorum” e stava a significare che gli dei non erano disposti a permettere all’umanità di innalzarsi al loro livello. Sudditi erano e sudditi dovevano restare: schiavi, semplici giocattoli per il divertimento degli dei. Ma Mary la vedeva in modo più complesso. Scelse di mettere al suo romanzo il sottotitolo “Il Prometeo moderno” e questo fatto ci deve spingere a qualche riflessione. Innanzi tutto, va ricordato che l’autrice era moglie di uno dei più celebrati poeti del suo tempo, Percy Bhysse Shelley, il quale aveva scritto un dramma in versi dal titolo “Prometheus unbound” (Prometeo liberato, 1820). Quest’opera, mentre rievocava il mito greco, celebrava il progresso e la scienza, ispirandosi alle idee progressiste dell’ex-pastore protestante e filosofo William Godwin, che era anche diventato suo suocero. Tutto questo deve aver avuto una certa influenza sulla genesi del romanzo. Il significato mitologico di Prometeo è noto: si tratta di un Titano, dunque un essere immortale, che decide di donare agli uomini la conoscenza dell’uso del fuoco, contro il volere di Zeus e degli altri dei dell’Olimpo. Zeus punisce Prometeo in modo terribile per questa disubbidienza: lo incatena per sempre a una montagna e ogni giorno manda un’aquila a dilaniargli il fegato, il quale poi ricresce durante la notte, perpetuando così il tormento. Prometeo per di più è recidivo: tempo prima aveva racchiuso in un vaso tutti i mali del mondo, per evitare che tormentassero l’umanità. E sarebbe anche riuscito nell’intento, se non avesse affidato la custodia del vaso a suo fratello Epimeteo, decisamente meno sveglio di lui, e alla sua curiosa e sventata consorte Pandora. Per nostra fortuna, dopo tutti i mali e i tormenti, dal vaso uscì per ultima una cosa preziosa: la speranza. Ecco da dove deriva il detto latino “Spes, ultima dea”.

Mary Shelley era insofferente all’autoritarismo e al puritanesimo almeno quanto suo marito e credeva nella scienza e nel progresso, anche se non ne nascondeva i possibili pericoli. Sapeva dunque bene quello che intendeva dire, definendo il medico svizzero Victor Frankenstein “il moderno Prometeo”. Il vero peccato del medico, se ci si sofferma a pensarci, non è l’hybris, non è l’aver voluto creare la vita assumendo delle prerogative divine. Non è un novello Faust, insomma. No. La sua colpa è di aver avuto paura, di non essere riuscito ad assumersi le proprie responsabilità, e di aver dunque abbandonato a se stessa la propria creatura, anziché aiutarla dopo averla messa al mondo. Ed è questo rifiuto, quasi edipico, che spinge la creatura stessa a vendicarsi di Frankenstein in modo terribile.

Come controllare certe creature

Uno dei problemi principali, quando si ha a che fare con queste creature artificiali, è come tenerle sotto controllo. Come ha scritto ironicamente Isaac Asimov, sembra che abbiano la tendenza, non appena animate, “ad allungare la mano verso l’ascia più vicina”. È ciò che accadde con il golem, con le bambole meccaniche, con le donne resuscitate dei racconti di Poe e anche con il mostro di Frankenstein. Ma se si adotta un approccio scientifico al problema, o anche semplicemente vi si applica un po’ di buon senso, ci si rende conto che prima di dare vita a una creatura ci si deve preoccupare di inserire in essa dei sistemi di controllo. Costruireste un’automobile senza lo sterzo e i freni? Spingereste una barca in acqua senza esservi assicurati di avere i remi e il timone per governarla? Per limitare certi rischi, Asimov proponeva di inserire, nel cervello dei suoi robot, un circuito di sicurezza costituito da tre ferree leggi, alle quali i robot sono tenuti ad obbedire in ogni caso. Per chi non le conoscesse, forse vale la pena di riportarle qui.

1.  Un robot non può recar danno a un essere umano, né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno.

2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge.

3. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima e la Seconda Legge.

Questo è il punto più debole nel romanzo della Shelley, ma è perdonabile, se si considera l’epoca pionieristica in cui è stato concepito. Asimov invece iniziò ad elaborare le sue leggi molto più tardi, nel 1941: un momento storico particolare, in cui gli Stati Uniti erano appena entrati in guerra e gli scienziati nazisti incutevano paura per le armi innovative e terribili che sfornavano a ripetizione. L’idea dunque di inserire dei sistemi di sicurezza nelle creazioni della scienza rispondeva ad una esigenza molto sentita in quel momento. E tuttavia, ogni tanto, un pronipote di Frankenstein spunta ancora qua e là nella letteratura e continua a sfornare creature pericolose senza preoccuparsi troppo della sicurezza. Il primo a mettere in dubbio la proposta di Asimov fu Robert Bloch, che oggi tutti ricordiamo per il romanzo “Psycho” (1959), grazie anche alla versione cinematografica di Hitchcock, ma che in realtà ha avuto una lunghissima carriera come autore di gialli, horror e anche fantascienza. Solo due anni dopo l’enunciazione delle tre leggi, Bloch pubblicò un racconto dal titolo “Almost human” (Quasi umano, 1943), in cui un robot dotato di intelligenza artificiale viene rubato allo scienziato che lo stava realizzando da una sua giovane assistente di pochi scrupoli e da un ganster di mezza tacca, che sembra uscito da un giallo di Mickey Spillane. Ma il robot non ha completato la sua educazione (o forse è meglio dire programmazione) ed apprende rapidamente le cattive abitudini del suo sequestratore, fino a superarlo in cattiveria e a ucciderlo. Da allora, sebbene non troppo sovente, sono apparsi automi, androidi, computer, cloni e altre creature tutte dotate di intelligenza artificiale e tutte decise a far del male ai loro creatori, nonostante le Tre Leggi. Pensate al comportamento del computer HAL 9000 a bordo dell’astronave “Discovery” in “2001 Odissea nello spazio”. Nonostante il suo aspetto anonimo, fatto di lucine colorate e voce suadente, in fondo non è diverso dal mostro di Frankenstein e non vede l’ora di far fuori gli astronauti che occupano la sua nave. Una delle variazioni sul tema più interessanti è stata quella ideata da Robert Sheckley, scrittore satirico, di origine russa come lo stesso Asimov. Nel suo racconto “Uccello da guardia” (Watchbird, 1953) immaginava che un gruppo di scienziati fornisca alla polizia del futuro un robot-poliziotto a forma di uccello, capace di volare sulle città, individuando sul nascere i reati e bloccandoli. Tutto all’inizio fila liscio, ma poi gli uccelli da guardia modificano da soli la propria programmazione iniziale e incominciano a uccidere la gente per strada per ogni minima infrazione, anche per un divieto di sosta. E poiché la polizia è stata così imprevidente da non inserire nel loro cervello le tre leggi di Asimov, gli automi sono praticamente inarrestabili. Con questo racconto, Sheckley ha praticamente inventato i moderni droni con una cinquantina d’anni di anticipo rispetto a quelli usati per gli “omicidi mirati” dall’esercito americano. Alle volte penso che, se avesse brevettato l’idea, Sheckley avrebbe anche potuto arricchirsi. Di sicuro ha capito che, con l’aiuto della scienza moderna, lo spirito di Frankenstein sarebbe tornato a minacciare il mondo.


Testo a cura di Franco Piccinini, medico e scrittore, autore di “Da Frankenstein a Star Trek, scienza medica e fantasie scientifiche”, Edizioni della Vigna, 2016

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