Laura Pariani, Questo viaggio chiamavamo amore

Laura Pariani, Questo viaggio chiamavamo amore

La figura di Dino Campana (1885-1932) rimane ancor oggi un segno di contraddizione: l’inclassificabile, l’alieno, l’autore di un’unica opera, i Canti Orfici (1914), vagabondo, ‘maledetto’, frequentatore di prigioni, postriboli e manicomi, in Italia e all’estero, fino alla detenzione conclusiva nell’ospedale psichiatrico di Castel Pulci – ma insieme il puro poeta lirico, una delle voci più intense del Novecento poetico italiano, forse proprio per questo avvertito come fastidioso, irritante e ridicolo, “un uomo in disaccordo con il proprio mondo e per il quale non è prevedibile che un unico epilogo: il sacrificio, la liquidazione fisica e morale, la cancellazione della memoria”. Questa era l’idea di Sebastiano Vassalli che, nella Notte della cometa (1984), si era accostato a questo straordinario fuori casta ricostruendo, “con accanimento, con scrupolo, con spirito di verità” la biografia del suo eroe. Se, credo, il giudizio di Laura Pariani è simile, il suo procedimento narrativo è completamente diverso. Questa non è una biografia, ma una ricostruzione per flash-back di alcuni momenti salienti della vita di Campana, anzitutto del suo soggiorno in America latina (di cui non ci sono rimaste tracce, al di là della testimonianza del poeta) a partire dalla sua condizione di ricoverato nel manicomio di Castel Pulci. I poli del romanzo sono il qui e ora del vissuto nell’ospedale psichiatrico e il riandare al tempo felice e avventuroso della gioventù, in Argentina-Uruguay - la terra, straniera eppure vicina, di una misteriosa, più autentica libertà, o comunque dell’evasione dalla cerchia soffocante della grigia Italia. Accanto a questa dialettica del qui-altrove, adesso-allora si possono individuare altri due poli nelle modalità narrative: alcuni capitoli interamente condotti dal punto di vista di Dino Campana, in cui cioè questi è l’io narrante, si alternano ad altri di descrizione ‘dall’esterno’ della vita e delle ossessioni del poeta nel manicomio. Talvolta in uno stesso capitolo i due procedimenti si intrecciano. Non si tratta semplicemente di un espediente narrativo, ma del presupposto fondamentale del libro di Laura Pariani in quanto operazione di recupero dell’umanità dolente di Dino, anche nella sua condizione di malato. L’estraneo, il matto, l’alienato di genio (“genio e follia”, Lombroso) ritorna in queste pagine un essere umano a tutto tondo, emotivamente disturbato, ferito nella psiche, ma capace di elaborare con profonda umanità e con acume intellettuale le sue ossessioni. Per esempio Campana era convinto di essere oggetto di un controllo esercitato tramite interferenze elettromagnetiche: è questo il dato di partenza di una serie di gustose “lettere” (Ultimo avviso alla cricca dei Signori Critici, scambio di dati col Direttore Istat, lettera a Edison –‘richiesta urgente di brevetto’-, informativa al marchese De Sade, la terribile Lettera alla Signora Madre, la telefonata a Freud –“Che piacere trovarvi in casa, dottor Freud” …) che sono, nella libera ricostruzione di Laura Pariani, espressioni di intelligenza vivace e di umorismo sottile. Oppure si considerino le figure femminili del romanzo (Ludò, la meravigliosa Peau d’âne, Nausicaa dalle negre braccia, Maria Bebè - ‘O Regina, Regina adolescente’-, Manuelita Etchegarray…): sono donne amate ma spesso intraviste appena, oppure incontrate per una sola notte, oppure troppo giovani e sventurate, che ricompaiono nei sogni e nelle ossessioni del poeta. Proprio per questa loro sostanza di sogno e di rimpianto, se dovessi accompagnare una musica alla lettura di queste bellissime pagine sceglierei la dolce e nobile mélodie di Gabriel Fauré, Après un rêve.

I titoli dei capitoli sono tratti dai testi di Campana (le fonti sono minuziosamente elencate in un’avvertenza preliminare). Basta leggerli con attenzione per rimanere scossi da questa poesia folgorante ed ellittica (Una goccia di luce sanguigna, Era una melodia, era un alito? Con le nostre lacrime facevamo le rose …). I capitoli sono, per così dire, una variazione sul tema, che è in germe indicato dal titolo di Campana: una sfida ardua, poesia su poesia, che però Laura Pariani riesce a superare brillantemente. Si veda per esempio, nel primo capitolo (“L’uomo o il viaggio, il resto o l’incidente. Messaggio per l’aldilà”) l’episodio del moscone nella camerata dei pazzi: Campana lo interpreta come un segno telepatico, l’avviso del ritorno dopo la morte di un caro amico lontano. Riaffiorano alla mente del poeta le vicende di quella strana e intensa amicizia tra due fuggiaschi dal mondo, che si erano incontrati casualmente sulla strada per Pavia per poi ritrovarsi in America e infine di nuovo su una spiaggia nei pressi di Genova. Intanto che Dino rievoca tra sé e sé queste vicende i pazzi rincorrono il moscone (“uno si sbracciava, un altro dava zompi per afferrarlo, un terzo mugolava per l’eccitazione …”) finché riescono ad acchiapparlo e a presentarlo, tutto schiacciato e sanguinolento, al poeta. E’ una scena in cui sono meravigliosamente intrecciati i diversi piani: il vissuto del poeta, tra ossessione telepatica e bisogno di affetto, le reazioni dei dementi compagni di reclusione, i commenti ottusi degli infermieri e il pensiero della scrittrice, che comprende l’uno e gli altri e ne raccoglie le voci, con uno straordinario effetto polifonico, in una rappresentazione che diventa per contrasto quasi una sacra rappresentazione. Ho accennato ad alcune componenti strutturali di questa scrittura così sofisticata. Ma la caratteristica decisiva è lo stile: sempre, anche nell’uso di alcuni ispanismi come nota di colore locale o nell’eco di lombardismi cari all’autrice, si ritrova un sovrano dominio dello stile - come se le parole cadessero dall’alto oppure venissero su dal profondo, insomma come se fossero evocate in una sorta di trance. Un solo esempio: «ogni cosa esige la mia massima attenzione: che si tratti della smorfia di un viso o del volo di una farfalla o dell’incerta traiettoria di una goccia d’acqua sul vetro di una finestra, posso cadere in adorante contemplazione di cose a cui gli altri neanche badano. Ho sempre avuto il senso del raro e dell’effimero. E se la parola stupido viene da ‘stupor’, io sono il massimo concentrato di stupidità» (p. 37: non è una splendida descrizione della poesia come sguardo aurorale sul mondo?). Oppure si pensi alla scena epica dell’incidente ferroviario e del cavallo ferito, in “Sulla pampa nella corsa dei venti”; o al meraviglioso ultimo capitolo, sulla morte del poeta. I libri di Laura Pariani richiedono un lettore che non abbia fretta, che abbia la pazienza e l’umiltà di lasciarsi interpellare. Soltanto così potrà accostarsi a un romanzo come questo, che è insieme narrazione avvincente, poesia da poesia e nascosta meditazione. Ma ne sarà largamente ripagato. Consiglio a tutti di leggere questo libro.

w.m.

[Laura Pariani, Questo viaggio chiamavamo amore, Einaudi, Torino, 2015]


Walter Minella - l'autore di questa recensione - ha insegnato storia e filosofia nei Licei. Tra le sue pubblicazioni: Il dibattito sul dispotismo orientale. Cina, Russia e società arcaiche (1991). Ha tradotto il breve saggio di Varlam Tichonovič Šalamov, il grande testimone dei Gulag, Tavola di moltiplicazione per giovani poeti (2012), ha curato la pubblicazione del libro postumo di Pietro Prini, Ventisei secoli nel mondo dei filosofi (2015) e ha scritto la monografia Pietro Prini (2016).

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