Un affascinante romanzo a più strati


In prima approssimazione si potrebbe definire questo romanzo affascinante come un giallo scientifico-filosofico. Giallo perché la trama si dipana seguendo una serie di delitti concatenati, orchestrati da un misterioso personaggio che si firma “Anima mundi”. Scientifico-filosofico perché sono centrali nel libro le problematiche attinenti alla ricerca neurologica contemporanea, che affronta, con nuovi strumenti scientifici, alcuni dei temi centrali della filosofia moderna, da Cartesio in poi: la relazione tra materia e pensiero, cervello e mente, la questione della libertà ecc. I tre livelli – il giallo dei delitti preparati, compiuti o mancati, le ricerche neurologiche che sono alla base della tragedia, le implicazioni filosofiche della soluzione finalmente scoperta di un misterioso crittogramma – sono intrecciati. Non manca nulla alla gradevolezza della lettura: uno stile scorrevole, personaggi diversi che si succedono tra le vittime e tra gli investigatori, colpi di scena, cambi di prospettive, ribaltamenti ... A questo punto l’informazione che l’autore, Paolo Mazzarello, è docente ordinario di Storia della medicina all’Università di Pavia potrebbe sembrare irrilevante. E invece non lo è. Da un duplice punto vista: esteriormente perché, nella ricostruzione di figure e momenti della storia della medicina (e talvolta della storia tout court), Mazzarello aveva già dato prova, nei suoi numerosi libri precedenti, di uno stile spigliato, di una curiosità onnivora, di un talento narrativo che si ritrovano anche in questo romanzo. E poi perché l’oggetto sottostante è qui costituito da una delle frontiere più importanti della medicina contemporanea. La trama del testo è fitta e complessa: il lettore che cominci a leggere si vedrà per così dire trascinato dallo snodarsi degli eventi a seguire lo sviluppo del racconto.

In che consiste il segreto fondamentale, a cui allude un crittogramma misterioso lasciato dalla prima vittima di Anima Mundi? Il lettore troverà la risposta un po’ per volta, dopo aver seguito i vari tentativi di decodificarlo. In sintesi, si tratta di una risoluzione della vexata quaestio della relazione tra materia e pensiero, cervello e mente (nel linguaggio di Cartesio, res extensa e res cogitans). I neurologi contemporanei, avvalendosi delle tecniche di neuroimaging funzionale, hanno potuto fare molti passi in avanti in proposito, anche se mi pare (e qui spero che la mia condizione di profano non mi tradisca) che ancora oggi si scontrino soluzioni opposte: si va dall’eliminativismo di una importante studiosa come Patricia Smith Churchland, secondo cui la questione filosofica mente-corpo semplicemente non sussiste e lo studio del funzionamento del cervello (perché solo questo è la coscienza) va lasciato totalmente all’indagine scientifica, alle testi opposte di Federico Faggin, l’inventore del microprocessore, secondo cui “la materia incosciente non può produrre coscienza” (egli cita come esempio di coscienza le più alte realizzazioni filosofiche, poetiche, musicali, artistiche dell’umanità). Come si collocano i personaggi di Mazzarello in questo dibattito? Direi decisamente più dalla parte della Churchland che da quella di Faggin: e infatti il titolo, Il mulino di Leibniz, allude a un celebre passo di Leibniz (Monadologia 17), che l’autore riporta per contestarlo, secondo cui il cervello sarebbe come un mulino deputato a produrre farina. Ma chi visitasse questo mulino non troverebbe, afferma Leibniz, altro che un insieme di macchine, di ingranaggi: mancherebbe la materia prima, da cui produrre la farina. Insomma, si ripropone in Leibniz il ben noto dualismo ontologico.

Tuttavia Mazzarello non si limita a ripetere le tesi dei ‘riduzionisti’: egli (o meglio un personaggio del libro, Fosco) le arricchisce e insieme le inserisce all’interno di un affascinante impianto concettuale, che ha importanti ricadute filosofiche e storiche. L’arricchimento consiste in questo: non si parla di cervello in generale, con i suoi miliardi di neuroni e di sinapsi, ma di un cervello che, nel corso dell’evoluzione, abbia raggiunto una quantità sufficiente di informazioni: allora, e solo allora, la quantità si trasforma in qualità, le sinapsi interagiscono in modo coerente e nuovo e appare quella nuova prospettiva sul mondo che chiamiamo pensiero. In secondo luogo - e questo è l’elemento più innovativo - questa dinamica della ‘presa di coscienza dall’accumulazione di un numero sufficiente di sinapsi’ - non varrebbe solo per l’individuo, ma, ancora di più, per Gaia (la terra). Fosco riprende l’ipotesi Gaia formulata per la prima volta dallo scienziato inglese James Lovelock e perfezionata dalla biologa Lynn Margulis. Secondo questa ipotesi, la terra (Gaia) deve essere considerata come un sistema unitario, “un sistema stabile complesso con un suo ciclo di processi vitali, un suo metabolismo, insomma una sua vita”. Fosco però apporta “una sostanziale modifica a questa teoria … Secondo lui, come nell’embrione si sviluppano i vari organi fino al sistema nervoso, così è successo a Gaia, nel corso di un processo che ha avuto inizio alcuni miliardi di anni fa con la nascita della Terra. Qui sta la prima delle sue grandi idee: la Rete è il sistema nervoso di Gaia. Come il cervello umano, internet non è un complesso di istruzioni astratte definite a priori ma un divenire … I computer, tramite i quali ci connettiamo, sono i suoi recettori sensitivi periferici e le sue terminazioni sinaptiche e noi esseri umani siamo i neurotrasmettitori di questi sistema.” (pp. 339-340).

Sulla base di queste considerazioni ci si avvia allo scioglimento finale della vicenda narrata, al quale qui converrà soltanto accennare per non togliere al lettore il gusto di scoprirlo da sé. Diremo soltanto che la conclusione del romanzo, decisamente inquietante, mostra come - se dalla globalizzazione in cui ci troviamo immersi si escludono dimensioni della coscienza umana quali etica, estetica, ricerca della verità - si possa precipitare in una irreversibile spirale di devastazione e di morte.

Quello che ho presentato qui è solo uno schema povero e ipersemplificato del testo, che nasce da una profonda preoccupazione morale. Dall’Epilogo (La parte e il tutto): “… sta a noi evitare la vendetta di Gaia. Sarà imperativo stabilire una Nuova Alleanza, un nuovo patto tra l’Uomo e la Natura, che comprenda la Rete, perché la Rete è ormai parte della Natura. …. sappiamo. Sappiamo che il nostro destino è cercare l’armonia delle nostre bolle individuali di coscienza con Gaia e tramite lei con la mente dell’universo, che per qualcuno è Dio per altri la più immediata espressione di Dio”. (p. 348)

In questo mio povero sunto mancano, oltre alle sfumature della narrazione romanzesca, alcuni dei momenti più autentici e toccanti del libro: per esempio, all’inizio della seconda parte (“La quercia”) la bella citazione di Darwin (“dalla guerra della natura, dalla carestia e dalla morte segue direttamentre il frutto più stupendo che possiamo concepire: la produzione degli animali più elevati”), seguita da una criptocitazione di Leopardi dallo Zibaldone (il terribile naturale, che noi possiamo sperimentare entrando in un giardino) e, infine e soprattutto, dal Tolstoj di Guerra e pace (il principe Andrej che contempla una volta il cielo di Austerlitz, un’altra volta la quercia maestosa, che “al massimo era cresciuta sostituendosi ad altre piante, ma senza violenza, con calma, lentamente, competendo in maniera gentile e leale. Non aveva mai dovuto ammazzare per sopravvivere”). La passeggiata di Folco nel bosco è una sorta di esperienza mistica – che definiremmo mistica autentica, in contrasto con la mistica deviata, che potremmo chiamare diabolica, di cui Anima Mundi, ‘il principe di questo mondo’, è espressione.

wm

 


 

[Paolo MAZZARELLO, Il mulino di Leibniz, Neri Pozza, Vicenza, 2022, pp. 348, euro 18]

 


 

Walter Minella - l'autore di questa recensione - ha diretto la rivista "Ulisse" e attualmente è il curatore della rubrica di recensioni della Biblioteca Bonetta di Pavia.

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