Katherine Mansfield, Lettere

Katherine Mansfield, Lettere

Bene ha fatto l’editore Elliot a ripubblicare le Lettere di Katherine Mansfield (1888-1923), la grande scrittrice inglese di origine neozelandese, nell’antica ma ancora scorrevole traduzione di Milli Dandolo. Perché, come aveva intuito già il giovane Vittorini nel 1932, “non c’è da stupirsi che proprio le lettere, meglio dei racconti di Bliss e del Garden Party, abbiano fatto capire indirettamente quale scrittrice era perita, per una emottisi, la notte del 9 gennaio 1923” (Elio Vittorini, Letteratura arte società. Articoli e interventi 1926-1937, a cura di Raffaella Rodondi, Einaudi, Torino, 1997 e 2008, p. 516). Infatti le Lettere della Mansfield non sono solo una specie di introduzione generale alla sua attività di autrice di alcuni tra i più perfetti racconti del Novecento, ma sono un’opera geniale in sé. La prima impressione, leggendole, è una sorta di sbalordimento di fronte alla qualità di questa scrittura: viene in mente l’osservazione di Cristina Campo sull’ultima lettera (italiana) di Mozart, “un esempio quasi terribile dello stile quando sia integralmente diventato natura”. Il fatto è che lo stile, qui come in Mozart, corrisponde a una visione della realtà che ci tocca profondamente e ci lascia meravigliati. E’ come se la sabbia che scorre nella clessidra dei nostri giorni, in queste pagine riservate agli amici si tramutasse all’improvviso in pagliuzze d’oro e noi assistessimo a bocca aperta a questa metamorfosi. E’ il miracolo della trasfigurazione del quotidiano che si compie qui. Tutto è illuminato nel mondo, sembra dirci la Mansfield. Solo che noi non ce ne accorgiamo.

Da dove nasce una sensibilità così intensa? Da un dono naturale, certo.  Ma non solo da quello. Anche il male, il dolore (la Mansfield morì a 34 anni dopo aver sofferto a lungo di tubercolosi) contribuiscono ad affinare questa stupefacente qualità della visione. E’ vero che da queste Lettere traspaiono segnali – alcuni accenni e soprattutto il silenzio finale – su quell’esperienza del dolore (“l’orrore della vita”, p. 81) che Simone Weil chiamava le malheur, la sventura – quel dolore che ti accascia e ti rende muto, sordo e cieco.  Ma non è questo l’esito prevalente. E’ invece una più profonda contemplazione della realtà, nelle sue infinite sfaccettature e soprattutto nella sua originaria bellezza. Qualche esempio a caso. “… Ogni notte si leva la brezza, e non so dirti quali profumi porta con sé, profumo del mare d’estate, profumo di lauri dei giardini e fragranza dei limoni. Oggi, dopo colazione, ci fu un tremendo temporale improvviso, le gocce di pioggia erano grosse come margherite – tutto il cielo era violetto. Sono uscita che era appena finito: il cielo era scintillante di alterne luci, il sole pareva una larga chiazza d’argento. Le gocce pendevano dagli alberi come pesciolini d’argento. Ho bevuto la pioggia dalle foglie dei peschi, che ho scosso perché m’inondassero d’acqua. Ogni foglia viola era piena di pioggia. Ho pensato a te, queste sono le cose che vorrei tu vedessi. Già mi rendo conto della vastità del cielo e della luce sull’acqua. Già ascolto la melodia del grillo, già guardo le minuscole ranocchie che attraversano il sentiero – e guardo le lucertole … Ho una strana sensazione, come se io fossi a casa e tu lontano” (p. 145, 19 settembre 1920).  Oppure: “La grande gabbia qui di fronte mi ha affascinata del tutto. Non faccio che pensare a quei canarini – ai loro sentimenti, ai loro sogni, a quella che sarà stata la loro vita prima di essere presi, la differenza fra questi due piccolini coperti di lanugine che sono nati in prigionia e i loro nonni che hanno conosciuto le foreste del Sud America e hanno visto l’immenso mare profumato… Le parole non possono esprimere la bellezza di questo piccolo canto acuto e vibrante che sale dalle pietre… Non si può sfuggire alla Bellezza… è da per tutto” (p. 211, 29 febbraio 1922). E infine: “Sai che quando una donna porta un bambino appena nato, l’altra donna si avvicina, solleva il fazzoletto dalla sua minuscola faccia, si china e dice ‘Benedetto’. Io vorrei sempre sollevare il fazzoletto dalle lucertole e dalle viole del pensiero e dalla casa nel lume della luna. Sempre io sto per benedire tutto ciò che vedo. Strana sensazione” (148-9, 7 ottobre 1920). Un fratello spirituale della Mansfield, il grande pittore Paul Klee, esprimeva così questa esperienza radicale: “Oh non lasciar morire/ l’infinita scintilla/ nella misura stretta della legge./ Ma fai attenzione, non allontanarti/ troppo da questo mondo!/ Pensa di essere morto/ e dopo molti anni di lontananza/ ti viene concesso un solo sguardo sulla terra./ Vedrai un lampione,/ e un vecchio cane con la zampa alzata./ Singhiozzerai dalla commozione.”

w.m.

[Katherine Mansfield, Lettere, traduzione di Milli Dandolo, Elliot, Roma, 2016]


Walter Minella - l'autore di questa recensione - ha insegnato storia e filosofia nei Licei. Tra le sue pubblicazioni: Il dibattito sul dispotismo orientale. Cina, Russia e società arcaiche (1991). Ha tradotto il breve saggio di Varlam Tichonovič Šalamov, il grande testimone dei Gulag, Tavola di moltiplicazione per giovani poeti (2012), ha curato la pubblicazione del libro postumo di Pietro Prini, Ventisei secoli nel mondo dei filosofi (2015) e ha scritto la monografia Pietro Prini (2016).

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