Massimiliano Boni, Il museo delle penultime cose

Massimiliano Boni, Il museo delle penultime cose

Ricorre quest’anno l’ottantesimo anniversario delle cosiddette “leggi razziali”, cioè delle vergognose leggi razziste emanate del fascismo.

Le persone colte, fino a poco tempo fa, davano per scontato che fosse stata assimilata dall’opinione pubblica una delle conquiste della scienza contemporanea, che cioè “le razze” non esistono (esistono invece le culture), per cui qualunque discorso sulla “lotta tra le razze” è intellettualmente cialtronesco, oltre che umanamente miserabile. Evidentemente questa acquisizione non c’è stata, se c’è oggi in Italia chi torna a parlare della “razza bianca italiana”. E sono frequenti, in Europa, i segni di un ritorno dell’atteggiamento antiebraico, da parte sia di eredi del fascismo e del nazismo sia di immigrati di origine araba. (L’atteggiamento antiebraico è generalmente definito antisemita, a mio parere impropriamente: “semita” indica una caratteristica linguistica e tanto l’ebraico quanto l’arabo sono lingue semitiche, per cui è assurdo parlare di antisemitismo arabo). E’ allora naturale che, tra le vittime italiane ed europee del discorso razzista, in particolare tra gli ebrei, torni il timore che si possano ripetere le atrocità della shoah, il genocidio perpetrato a danno degli ebrei (oltre che dei rom, degli omosessuali, dei portatori di handicap ecc.). Un antidoto fondamentale è la memoria, l’esercizio, il culto della memoria.

In questo complesso di emozioni è radicato il romanzo di Massimiliano Boni, Il museo delle penultime cose. Diciamo subito che è un libro affascinante, che si fa leggere tutto d’un fiato (o almeno questa è la mia esperienza: io, dopo averlo iniziato, non sono riuscito a smettere). Il libro, con una brillante invenzione letteraria, è ambientato a Roma, nell’Italia quale si immagina possa essere tra una decina di anni. Si accenna a un partito populista che è giunto al potere e che a poco a poco taglia i fondi al museo della shoah di Roma (un museo che purtroppo oggi non esiste). In questo clima viene data la notizia che, forse, è ancora in vita uno dei sopravvissuti, anzi l’ultimo sopravvissuto, della shoah, un anziano ricoverato in una casa di riposo gestita da religiosi cattolici: sarà veramente un ebreo scampato al massacro oppure questa storia è incredibile, impossibile, “una stupidaggine” come pensa, all’inizio di tutto, il protagonista Pacifico Lattes, il giovane vicedirettore del museo, di origine ebraica? Si dipana da qui la vicenda, con le movenze di un giallo.

L’abilità dell’autore è di tener insieme la forma esteriore del giallo, e la sua leggibilità, con una riflessione profonda che riguarda la memoria, la paura, la speranza, la solidarietà, la religione ebraica e quella cattolica, le forme di razzismo quotidiano in Italia ecc. La storia parte dalle domande intellettuali del protagonista (scoprire la verità sul vecchio ricoverato nell’ospizio) e culmina in una intensa rappresentazione delle emozioni sue, della sua famiglia (vivida la descrizione della moglie e dei figli, oltre che dei genitori), dei suoi amici (bello il ritratto del direttore del museo della shoah, il ligure non ebreo Mario, figlio di partigiani), del vecchio Attilio, cupo, chiuso in se stesso, dei diversi esponenti del cattolicesimo con cui il protagonista entra in contatto … Particolarmente toccanti sono i riferimenti alla ricchezza comunitaria del culto ebraico, da una parte, e all’esperienza interiore della preghiera ebraica, dall’altra. Una domanda è sottesa a tutto il racconto: tornerà l’orrore? Perché, se dovesse ritornare, allora l’unica speranza sarebbe di fuggire. La domanda rimane aperta: a ciascuno di noi la risposta.

Una sola osservazione a margine: il contributo dato dall’ebraismo alla cultura italiana (come a quella tedesca, francese ecc.) è stato così straordinario da essere quasi incredibile, tenendo conto del numero ristretto degli appartenenti alle comunità ebraiche. E questo romanzo è una ulteriore conferma di quanto sia prezioso ancora oggi questo apporto per la nostra cultura. Anche solo per questo, l’eventualità della scomparsa della voce ebraica dal coro della vita nazionale appare come una sciagura assoluta, che va totalmente respinta. C’è di più: il principio dell’universalismo, che accomuna il meglio della cultura ebraica (penso per esempio a Martin Buber o a Emmanuel Lévinas) e di quella cristiana, che dalla prima deriva (penso per esempio a John Donne o a papa Giovanni XXIII) ci dice che il rifiuto della discriminazione omicida riguarda, in Italia come in qualunque luogo del mondo, ogni vittima possibile - tanto gli ebrei quanto gli appartenenti a qualsiasi altro gruppo, comunità, nazione. 

w.m.

[Massimiliano Boni, Il museo delle penultime cose, 66THA2ND, Roma, 2017]


Walter Minella - l'autore di questa recensione - ha insegnato storia e filosofia nei Licei. Tra le sue pubblicazioni: Il dibattito sul dispotismo orientale. Cina, Russia e società arcaiche (1991). Ha tradotto il breve saggio di Varlam Tichonovič Šalamov, il grande testimone dei Gulag, Tavola di moltiplicazione per giovani poeti (2012), ha curato la pubblicazione del libro postumo di Pietro Prini, Ventisei secoli nel mondo dei filosofi (2015) e ha scritto la monografia Pietro Prini (2016).

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