Vito Mancuso, Il bisogno di pensare

Vito Mancuso, Il bisogno di pensare

I libri che analizzano il malessere delle società occidentali contemporanee (quello che nel gergo filosofico si chiama nichilismo, dal latino nihil, nulla: cioè la mancanza di orizzonti, di speranza, di comunità, di capacità di oltrepassare il proprio piccolo io, nella società della comunicazione di massa) costituiscono ormai un vero e proprio genere filosofico e sociologico. Per lo più a questa diagnosi amara non si accompagna alcuna terapia, perché si ritiene che questo sia ‘il destino’ della nostra epoca. Diversa è l’impostazione di questo saggio di Vito Mancuso, Il bisogno di pensare. Lo scopo del libro è, in prima istanza, quello di proporre un’alternativa a questo stato di sicurezza chiusa in se stessa, a questa soppressione del dubbio, dell’inquietudine, della domanda radicale da cui nasce il pensiero. Anche perché, in mancanza di un pensiero filosofico, subentra una folla di piccoli pensieri che agitano il nostro io quotidiano, la vita ordinaria della mente e che la tradizione indiana rappresentava con l’immagine meravigliosamente efficace di “un albero pieno di scimmie che urlano e che saltano da un ramo all’altro” (p. 155). In questo senso il titolo “Il bisogno di pensare” potrebbe essere reso anche come “Elogio del dubbio” (che pone problemi che il pensiero cerca di risolvere). Nelle bellissime frasi poste in epigrafe al testo di Mancuso questo elogio del dubbio, della ricerca, del pensiero viene esemplificato facendo riferimento a numerosi autori, da Pascal a Kant, da Simone Weil al cardinal Martini a Norberto Bobbio, da Jung a colloquio con il capo indiano Lago di Montagna ad Hannah Arendt. Citerò solo il passo del cardinal Martini, che diceva: “Mi angustiano le persone che non pensano, che sono in balia degli eventi. Vorrei individui pensanti. Questo è l’importante. Soltanto allora si porrà la questione se sono credenti o non credenti”.

Se questo è il primo livello del libro, c’è un secondo livello, che potremmo definire come elogio razionale della speranza. Una delle più grandi filosofe del Novecento, Hannah Arendt, indicava in modo mirabile la molla psicologica che induce a questa logica della speranza: “Coloro che non sono innamorati della bellezza, della giustizia e della sapienza sono incapaci di pensiero”. La filosofa alludeva a una esperienza, e a una visione di vita resa possibile da tale esperienza, che potrebbe essere descritta in senso lato come religiosa, se religione ha a che fare con un senso di legame, di comunità, di fratellanza con gli altri esseri umani e con il mondo. Questa idea della Arendt riprende in sostanza concezioni espresse dalla maggior parte delle filosofie pre-moderne, occidentali e orientali. Ma il pensiero della estrema modernità occidentale oppone loro una forte resistenza teorica. Allora, il secondo livello di questo libro consiste nel tentare di proporre una difesa della plausibilità di quelle esperienze e di quella logica. L’autore ricorre in particolare a una originale filosofia della natura, che credo derivi da Teilhard de Chardin e che reinterpreta la teoria dell’evoluzione in chiave finalistica (l’essere umano cosciente come punto culminante dell’evoluzione della natura e l’essere umano perfetto, che forse potremmo simboleggiare con Gesù Cristo, come possibile culmine dell’evoluzione dell’uomo).

Non posso, nei limiti di questa scheda, entrare nell’ambito delle specifiche argomentazioni del discorso filosofico-teologico di Mancuso. Posso soltanto ricordarne alcuni tratti fondamentali. Anzitutto il rifiuto del tradizionalismo fideista e la difesa della razionalità. Mancuso è convinto che l’atteggiamento caratterizzato da speranza, amore [carità] e fede possa essere razionalmente difeso. E, poiché la ragione moderna si manifesta anzitutto attraverso le scoperte scientifiche, per lui il dialogo con le scienze moderne è fondamentale. Egli condivide il giudizio di s. Agostino: fides, si non cogitetur, nulla est, la fede, se non è pensata, è nulla, non esiste. In secondo luogo, viene ripresa dalla grande tradizione filosofico-religiosa occidentale e orientale l’ipotesi che, oltre al nostro piccolo io quotidiano, nella sua complessa articolazione, esista in noi anche una realtà psichica più profonda, una prima radice, una sorgente di acqua e di vita, che spesso viene ricoperta dalla sabbia delle preoccupazioni quotidiane e che dobbiamo sempre di nuovo ricercare scavando dentro di noi. La sapienza consiste nell’attingere a questa prima sorgente, qualunque sia il modo in cui essa è stata rappresentata nelle varie tradizioni culturali (Mancuso è esponente di quel pensiero ecumenico che segue la via tracciata da Karl Jaspers e percorsa poi da Hans Küng e da Raimon Panikkar). Una terza osservazione riguarda lo stile della comunicazione: uno dei motivi del fascino di questo libro consiste nell’esposizione rigorosa e insieme chiara e semplice di temi filosoficamente complessi. La chiarezza, contrariamente a quanto si pensa spesso, soprattutto in Italia e soprattutto nel mondo dei filosofi, è una virtù, anzi una virtù superiore, forse addirittura quella suprema, del discorso filosofico. E non è affatto semplice e automatico il raggiungerla (è più facile scrivere in modo complicato e tortuoso che in modo chiaro e amichevole per il lettore). L’autore possiede in modo eccellente questa virtù. La dispiega attraverso i diversi capitoli del suo libro, di cui mi limito qui ad elencare i titoli, sperando di incuriosire il lettore: La sorgente del pensare: critica ed elogio del desiderio; Ingredienti e forme del pensiero; Come pensare: il retto uso della ragione; Pensare qui e ora; Il sapere fondamentale quale esito del pensare; Agire, il pensare in atto; Pensare con fiducia: la fede e la vita eterna; Il bisogno di non pensare; Verso un pensiero che si fa vita. Il libro si conclude con questa esortazione:

“Ringraziare. Ringraziare la Vita. Ringraziare il Dio. Sorridere, sorridere anche quando non c’è motivo per farlo, e il motivo arriverà” (p. 173).

w.m.

[Vito Mancuso, Il bisogno di pensare, Garzanti, Milano 2017]


Walter Minella - l'autore di questa recensione - ha insegnato storia e filosofia nei Licei. Tra le sue pubblicazioni: Il dibattito sul dispotismo orientale. Cina, Russia e società arcaiche (1991). Ha tradotto il breve saggio di Varlam Tichonovič Šalamov, il grande testimone dei Gulag, Tavola di moltiplicazione per giovani poeti (2012), ha curato la pubblicazione del libro postumo di Pietro Prini, Ventisei secoli nel mondo dei filosofi (2015) e ha scritto la monografia Pietro Prini (2016).

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