Questo romanzo nasce dall'articolazione raffinata di tre storie diverse: la prima, che funge da cornice narrativa, è il racconto dell'uscita dalla prima giovinezza di Shemuel Asch, nella Gerusalemme tra la fine del 1959 e l'inizio del 1960; le altre due sono degli inserti di tipo saggistico su Gesù nella tradizione ebraica e sul ruolo di Giuda iscariota, da una parte, sulle origini e il destino dello Stato di Israele, dall'altra. Questi frammenti, già di per sé interessanti, diventano affascinanti per il fatto di essere presentati non nella forma di una obiettiva ricerca accademica, ma come parte integrante della psicologia vissuta dei diversi personaggi che, via via, li espongono, ne vivono le implicazioni, per così dire li incarnano.
Il racconto di formazione parte da una situazione di desolazione del giovane Shemuel: abbandonato - si potrebbe dire, con riferimento al tema del libro, tradito - dalla fidanzata, privo di mezzi per il tracollo economico del padre, lascia l'Università, dove stava compiendo una tesi di dottorato su Gesù in una prospettiva ebraica, si allontana dal Circolo per il Rinnovamento socialista, a cui aderiva, trova un lavoro precario, insomma cambia vita. Comincia da qui il suo processo di rigenerazione psicologica. La finezza con cui viene descritta questa rinascita interiore è grande: il racconto procede per pennellate di colore, frammenti di quotidianità sempre illuminati da una luce nascosta (si veda per esempio la magnifica rappresentazione del gatto randagio a pp. 211-212), sempre evocativi di un clima e funzionali alla logica del racconto.
Su questo tronco originario si innestano la reinterpretazione della figura di Giuda, il discepolo che ha tradito Gesù (tema del tradimento) e la ricerca su Gesù nella cultura ebraica. Il rapporto ambivalente del giovane Schemuel Asch con Gesù è descritto in modo toccante (p. 131): Non credo neanche lontanamente al fatto che Gesù fosse Dio o figlio di Dio. Ma lo amo. Amo le parole che ha usato . Schemuel è ateo perché troppo è il male nel mondo, ma insieme percepisce la profonda, universale e atemporale verità psicologica del rabbi di Nazaret, quell'"abisso di luce" di cui parlava Kafka. Con questo spirito vengono rievocate le vicende della nascosta denigrazione ebraica, durata per secoli, della sua figura: una denigrazione che si spiega anche come reazione nei confronti del disprezzo o della persecuzione contro gli ebrei compiuta per quasi due millenni da gente che si professava cristiana. Quanto a Giuda da Keriot (iscariota), egli viene descritto, seguendo le suggestioni di alcuni vangeli gnostici, in modo opposto a quello dei Vangeli canonici: egli sarebbe stato il discepolo che più amava Gesù, ne avrebbe affrettato la salita a Gerusalemme, la cattura e la crocifissione perché credeva che Gesù sarebbe sceso dalla croce, convincendo così anche i più testardi dei suoi oppositori che davvero egli era il messia, colui che avrebbe dato inizio alletà messianica. Dopo la crocifissione, qui sapientemente rievocata, Giuda cade nella disperazione: Gesù è morto, morto per sempre, dunque la speranza, la gioia, la fraternità che suscitava, tutto è un'illusione. Rimangono un presente e un futuro squallidi, privi di luce: perché se anche Lui è stato sconfitto, allora nessuno potrà mai vincere la morte, il regno di Dio non giungerà mai. Dio non mantiene le promesse, o forse non c'è. Per questo Giuda sceglie di impiccarsi all'albero maledetto di fico. Infine la terza diramazione (il terzo tradimento?): la figura di Yehoyachin Abrabanel, una delle più potenti creazioni del genio di Oz. Egli sarebbe stato un membro dell'aristocrazia sefardita di Gerusalemme: abituato a frequentare gli arabi ed ad avere con loro rapporti di amicizia, sarebbe stato uno degli esponenti di spicco della dirigenza sionista nella prima metà del Novecento. In questa duplice veste, di sionista ed amico degli arabi, dando voce all'utopismo e al messianismo ebraico, si sarebbe opposto al progetto di Ben Gurion, di creare uno Stato d'Israele accanto a uno Stato palestinese. Secondo Abrabanel la convivenza dei due Stati sarebbe stata impossibile: si sarebbe innescato un meccanismo di guerra mortale tra i due popoli, si sarebbe aperta una ferita mai più rimarginabile. Meglio sarebbe stato seguire la strada di una pacifica convivenza, magari senza alcuno Stato, rinsaldando e ampliando i vincoli di amicizia che già in parte esistevano tra ebrei e palestinesi. Ma Abrabanel viene sconfitto: emarginato, disprezzato, cancellato dalla storia patria si chiude nel silenzio, distruggendo tutti i suoi scritti. Eppure, ci viene detto allinizio, sulla casa di Abrabanel campeggiava la scritta: CASA DI YEHOYACHIN ABRABANEL PER ANNUNCIAR CH'E' GIUSTO IL SIGNORE (p. 29). Perché la scritta viene mantenuta anche durante il silenzio finale? Forse questo silenzio non è semplicemente disperazione, come in un primo tempo saremmo portati a credere: forse è il modo di corrispondere al silenzio di Dio? Equivale a uninterrogazione nascosta, a cui non possono dare risposta gli uomini, ma solo 'il Signore che è giusto'?
Schemuel viene a sapere di questa figura grandiosa ed enigmatica da due coprotagonisti del romanzo, la figlia di Abrabanel, Atalia, e il consuocero, Wald. Anche la rappresentazione di questi due personaggi è potente e sottile: sono, in modo diverso, suggerisce Oz, due persone lucidamente prive di speranza (è realismo sobrio, il loro? O forse è questa la vera tentazione, il vero tradimento?). La loro storia è intrecciata con le vicende del conflitto israelo-palestinese. Il genio di Oz si manifesta ancora una volta, e forse soprattutto, qui, nel mostrare nella concretezza della narrazione il carattere tragico, nel senso greco, di questo conflitto (pp. 119-123): perché la tragedia si ha quando si oppongono non una ragione e un torto, un diritto e il suo contrario, ma due ragioni parziali, due diritti relativi, ciascuno dei quali pretende di essere totale e assoluto. A mio parere questa rappresentazione di Oz è un gesto di grande coraggio intellettuale, oltre che una straordinaria performance artistica: si tratta di un vertice dellautocoscienza ebraica, che diventa così, come tante altre volte nella storia, universalmente umana.
Dunque questo romanzo si rivela, a poco a poco, come un grande racconto-meditazione sulla speranza e sulla disperazione, sul senso e sul non senso, sul passato e sul futuro, sulla logica messianica e su quella realistica della potenza. Insomma sulla vita. Ma tutto questo non con categorie filosofiche, ma appunto narrando storie (ritorna anche qui la grande tradizione ebraica?), con un racconto piano, scorrevole, semplice, che provoca l'intelligenza e la sensibilità in un modo, per così dire, sotterraneo, senza alcun partito preso e lasciando al lettore la responsabilità del giudizio.
w.m.
[Amoz Oz, Giuda, traduzione di Elena Loewenthal, Feltrinelli, Milano, 2014]
Walter Minella - l'autore di questa recensione - ha insegnato storia e filosofia nei Licei. Tra le sue pubblicazioni: Il dibattito sul dispotismo orientale. Cina, Russia e società arcaiche (1991). Ha tradotto il breve saggio di Varlam Tichonovič alamov, il grande testimone dei Gulag, Tavola di moltiplicazione per giovani poeti (2012), ha curato la pubblicazione del libro postumo di Pietro Prini, Ventisei secoli nel mondo dei filosofi (2015) e ha scritto la monografia Pietro Prini (2016).