Due romanzi storici sulla condizione femminile


I due romanzi di cui stiamo per parlare hanno alcune caratteristiche esteriori in comune, accanto ad altre profondamente diverse. Sono libri molto lunghi, che dunque richiedono un lettore ‘forte’ per essere apprezzati come meritano; sono molto accurati e precisi nella ricostruzione storica; sono scritti da donne che indagano, a partire da una vicenda particolare, il destino femminile in due epoche storiche diverse. L’americana Rachel Khadish, di religione giudaica come indicano il suo nome e cognome, affronta la questione del diritto delle donne alla libertà di pensiero nella cultura ebraica dell’Inghilterra e dell’Olanda, intorno alla metà del XVII° secolo; la tatara Guzel’ Jachina si pone un problema analogo, sul versante dei sentimenti più che su quello del pensiero filosofico, in un contesto totalmente diverso, tra la fine degli anni Venti e gli anni Trenta del Novecento nell’Urss, al tempo della deportazione e dello sterminio in massa dei cosiddetti kulaki, i contadini ricchi (in realtà, con i nostri parametri, erano appena poco più che miseri).

Nel romanzo di Rachel Khadish la protagonista, Ester Velasquez, è una giovane che, nonostante le chiusure della cultura ebraica del tempo nei confronti delle donne, a cui era proibito insegnare la Torah (cioè l’insieme delle norme che costituiscono l’ebraismo), riesce a diventare una filosofa grazie all'intervento di un rabbino culturalmente aperto, Moseh HaCoen Mendes, il quale, divenuto cieco a causa dell’Inquisizione portoghese e rifugiatosi prima ad Amsterdam e poi a Londra, la accoglie come scrivana e, implicitamente, allieva. Anche Ester viene da una famiglia di ebrei di origine portoghese fuggiti dalla orribile Inquisizione cattolica nella tollerante Amsterdam; in seguito a una tragedia familiare si trasferisce a Londra, a casa del rabbino accecato. Ma nell’una e nell’altra comunità ebraica la vita intellettuale ristagna, pur con una intensa attività mercantile rivolta verso l’esterno. Come mai? Un po’ per le ‘regole di ingaggio’ (nella libera e tollerante Amsterdam ciascuna comunità religiosa poteva rispettare le sue regole ma non doveva cercare di intromettersi in quelle delle altre), un po’ per una sorta di chiusura spirituale interiore, in cui la difesa delle proprie radici, finalmente libere di svilupparsi, si accompagnava alla rigida autoesclusione nei confronti della cultura dei goym (propriamente le "nazioni", ma con un significato polemico che potremmo rendere come i pagani o gli infedeli). E’ questo l’ambiente in cui vive anche Spinoza, che invece sviluppa il suo pensiero eterodosso in stretto contatto con la nascente scienza occidentale moderna. L’autrice immagina che Ester, nascondendosi dietro uno pseudonimo maschile, abbia con lui una corrispondenza filosofica, avendo aderito come lui alla cultura della nuova scienza in via di costituzione e giungendo a negare, come Spinoza, il Dio antropomorfo dell’Antico Testamento (che si adira, si pente, è causa dei fenomeni naturali ecc.). Questa storia intellettuale si intreccia con una sorta di educazione sentimentale nell’ambiente dell’ebraismo inglese, descritto con vivezza di particolari (le vicende della ricca amica Mary, la caratterizzazione della serva Rivka che proviene dall’ebraismo tedesco, del vecchio rabbino Moseh HaCoen Mendes ecc.). Questo però è solo un piano del racconto. Accanto ad esso se ne pone un altro, ambientato nei nostri giorni, di cui sono protagonisti l’americano di origine ebraica Aaron Levy, giovane studioso di storia, e la professoressa Helen Watt, storica inglese "spiritualmente" ebraizzata non solo perché la sua vita è strettamente intrecciata allo studio della storia ebraica, ma soprattutto per via di una grande storia d’amore con un uomo israeliano, la cui famiglia è stata distrutta nella Shoah e la cui psicologia, plasmata da questo trauma, ci può aiutare a capire alcuni tratti della mentalità prevalente oggi in Israele. I due studiosi giungono a ricostruire la storia nascosta di Ester attraverso un fascio di documenti che erano rimasti nascosti per secoli e che vengono ritrovati casualmente in una vecchia casa nelle vicinanze di Londra. C’è un legame tra le due storie che si intrecciano? Forse sì: si tratta in fondo di due vicende che, in forme assai diverse nei diversi contesti storici, riproducono alcuni tratti comuni peculiari alla condizione ebraica, che potremmo definire come la dialettica tra appartenenza ed estraneità. Insomma questo è un libro di grande interesse, per chi condivida la passione per la storia (ricchissimi e veritieri molti dettagli storici), per la riflessione filosofica e per la cultura ebraica.

Nel romanzo di Guzel’ Jachina la protagonista Zuleika è una contadina analfabeta che vive in un villaggio tradizionalista di religione musulmana del Sud della Russia, tra la fine degli anni Venti e gli anni Trenta, in uno stato di semischiavitù nei confronti del marito e della suocera. Il marito, in quanto kulak, viene “liquidato” (orribile neologismo inventato dal regime stalinista per indicare l’assassinio di massa) e in seguito a questo evento Zuleika viene trascinata in un convoglio di deportati che, attraversando infinite peripezie in seguito alle quali la gran parte dei prigionieri trova la morte, giunge infine fortunosamente nell’estrema Siberia: qui entra a lavorare in un Gulag, cioè in un campo di lavoro forzato (Lager) che però, grazie al suo isolamento geografico, gode di una relativa autonomia e alla fine risulta meno orribile di quelli descritti da Solženitsyn e Šalamov. In questo nuovo contesto, la protagonista sviluppa nuove capacità e competenze (per esempio scopre di essere un’abilissima tiratrice e quindi diventa una sorta di cacciatrice professionista per gli abitanti del campo), assume una nuova psicologia e conosce di nuovo l’amore, non solo per il figlio ma anche per un uomo russo del campo - prima aveva conosciuto solo l’amore per le giovani figlie, tutte morte appena nate (ah, la condizione dei bambini nel passato …), ma non per il marito (non si può chiamare amore, infatti, la passiva obbedienza agli ordini e ai desideri del marito - il rapporto sessuale era per lei come essere pestata in un mortaio).

La grande scrittrice russa Ljudmila Ulickaja, presentando in una intensa prefazione (“L’amore ai tempi dell’inferno”) il romanzo di Guzel’ Jachina, scrive: “Questo romanzo appartiene a un tipo di letteratura che credevamo irrimediabilmente perduto con il crollo dell’URSS. In epoca sovietica potevamo contare, infatti, su una nutrita pleiade di scrittori dalla doppia cultura, scrittori figli di una delle tante minoranze etniche dell’impero, ma che sceglievano di scrivere in russo … Profonda conoscenza del territorio e delle sue peculiarità, amore per il proprio popolo, rispetto sconfinato e colmo di dignità per le altre etnie, grande delicatezza nell’accostarsi al folclore: questi i tratti che li distinguevano. E che - ci eravamo detti – avevamo perduto per sempre. E’ invece accaduto un caso strano e felice: una giovane autrice tatara, Guzel’ Jachina, si è inserita a forza nei ranghi dei maestri suddetti … Quella di Guzel’ Jachina è senza dubbio una ‘scrittura femminile’. Delle donne ha la forza, le debolezze, e la sacralità dell’essere madri – non in una nursery inglese, però, ma sulla sfondo di un campo di lavoro forzato, di una delle possibili anticamere dell’inferno ideate da uno dei peggiori carnefici che l’umanità abbia conosciuto. Come sia riuscita una scrittrice tanto giovane a dar vita a un’opera tanto potente, a quest’inno all’amore e alla tenerezza anche nell’inferno, resta un mistero, per me”.

Ljudmila Ulickaja dice tutto ciò che è essenziale: ogni ulteriore commento sarebbe non solo superfluo, ma fastidioso.

w.m.

[Rachel Kadish, Il peso dell'inchiostro, Neri Pozza, Vicenza, 2018]

[Guzel' Jachina, Zuleika apre gli occhi, Salani, Milano, 2017]


Walter Minella - l'autore di questa recensione - ha insegnato storia e filosofia nei Licei. Tra le sue pubblicazioni: Il dibattito sul dispotismo orientale. Cina, Russia e società arcaiche (1991). Ha tradotto il breve saggio di Varlam Tichonovič Šalamov, il grande testimone dei Gulag, Tavola di moltiplicazione per giovani poeti (2012), ha curato la pubblicazione del libro postumo di Pietro Prini, Ventisei secoli nel mondo dei filosofi (2015) e ha scritto la monografia Pietro Prini (2016).

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