Laura Pariani, Di ferro e d’acciaio

Laura Pariani, Di ferro e d’acciaio

In questo nuovo romanzo, “Di ferro e d’acciaio”, Laura Pariani esplora un territorio che finora non aveva mai toccato: l’utopia negativa, da una parte, cioè la descrizione di un futuro ipertecnologico orribilmente disanimato, e dall’altra il sacro, la rammemorazione e attualizzazione di vicende o aspetti dei Vangeli: una sorta di sacra rappresentazione. All’inizio l’operazione può lasciare sconcertati ma, a un’attenta rilettura, si rivela potente e originale come sempre.

La canzone popolare lombarda posta in epigrafe, che descrive le peripezie di Maria alla ricerca del figlio (“Son madre Maria che ha perso il sò figliuolo/ son madre Maria che cerca il sò figliuolo …) indica, credo, la chiave di lettura di questa profonda e raffinata operazione di ripensamento. Il futuro in cui si svolge la storia non è determinato: ricorda per alcuni tratti l’Argentina degli anni Settanta (le torture e gli assassinii dei giovani oppositori, la protesta delle madri vestite di nero, come le madri di Plaza de Mayo) e per altri un mondo nuovo orribilmente dominato – dopo la guerra dei Cinquanta Minuti - da una tecnoscienza senza altro criterio che l’efficacia, la Forza (il Partito della Forza è al potere, p. 45): dunque una combinazione di repressione esterna totale e di controllo interno che vorrebbe essere globale, attraverso una compiuta colonizzazione dell’anima, attuata dagli Ingegneri Sociali. Lo scopo è l’eliminazione del pensiero meditante, dunque di ogni memoria di quanto di nobile e di alto l’umanità ha creato, a partire dai libri per finire al divieto della conversazione quotidiana (il Silenzio Salutare), all’intromissione nelle scelte più intime di ciascuno (l’età della Fertilità Consentita, dopo i 35 anni), alla segregazione dei vecchi in apposite strutture che poi devono provvedere alla loro eliminazione (la Legge del Tramonto Sereno, 108-109) ecc.

Una caratteristica comune della neo-lingua è il rovesciamento del significato: la tenacia di Maria è “la manifestazione dell’incredulità” (p. 9), l’amore di Jesus per la cultura diventa “ossessione per i libri” (ma “ora per fortuna tutto è cambiato: niente più libri, niente più lungaggini, solo compilazioni antologiche di citazioni essenziali che si possono mandare a memoria”, p. 30), la casa delle torture, la Villa triste di tanti luoghi nell’Italia nazifascista, diventa Villa Ridente (p.103). Non manca una rigida divisione in caste (accanto agli uomini i Mezzòmini).

In questo contesto, viene rievocata la storia di Maria alla ricerca del figlio perduto, Jesus e, indirettamente, appare la centralità della figura di Jesus. Protagoniste di questa rievocazione sono le donne, tante voci che alla fine si compongono quasi a formare un coro. Si tratta di una serie di microstorie, ciascuna dotata di una sua autonomia e completezza (la ragazza sedicenne Amira, che viene scoperta ad ‘amorosare’ al di fuori del tempo stabilito con il suo ragazzo, la prostituta Alcyna, a cui dobbiamo una delle più potenti testimonianze su quel Jesus che l’ha amata, l’ha chiamata ‘amica’ e la battezza, la povera Rogelia, che rimpiange la consolazione della preghiera, anche se “pregare è antiscientifico e antisociale e antievolutivo e baobabao”, p. 34) ecc.

Non penso sia casuale questo ruolo centrale accordato alle donne: poiché nella vicenda narrata è fondamentale il gioco di allusioni ai testi dei Vangeli, credo che questo fatto rimandi alla testimonianza di una diffusa presenza femminile al seguito di Gesù, che i Vangeli menzionano, anche se, secondo molti studi recenti, non la valorizzano appieno. Sempre in questo contesto, di riferimenti e di allusioni velate, abbiamo nel primo capitolo ‘L’orto’ (il Getsemani), poi “quelli della Geenna” (p. 25) (gli addetti alle torture), il rinnegamento di Pietro, in fondo a uno squallido bar di periferia (p. 43), il suicidio di Giuda nel ‘cortile del fico’, descritto dalla sua compagna Kuba, una militante dura e pura della rivoluzione violenta, infine Procula, la moglie dell’Egemone Pontius, a cui “è sembrato a un tratto di scorgere qualcosa di se stessa – come un ricordo lontano, improvvisamente ravvivato – in uno dei prigionieri”, “il giovane [che] si è voltato e l’ha guardata con una sorta di silenzioso sorriso. Come se la riconoscesse” e le ha detto parole di grande, umana sapienza.

In questo contesto le figure di Maria N e di Jesus N sono così potenti e cariche di suggestione, tolta ogni patina di devozionalismo, di soprannaturalismo magico-miracolistico, proprio perché sono così naturali: si potrebbe dire che sono l’umano nella sua autenticità originaria. Anzitutto, si tratta di una madre che cerca, con ostinazione infrangibile, il figlio scomparso: e proprio questo comportamento naturale ed eterno, l’amore di una madre per il figlio, la tenacia, la determinazione nel cercare di difenderlo, diventa sconvolgente. E infatti, l’operatrice H478, addetta alla sorveglianza continua via video di Maria N., considerando il suo “comportamento sconsiderato”, pensa: “La passione – qualunque essa sia, per un figlio o un amoroso – è proprio una sciagura” (p. 86). Quanto a Jesus, è un giovane uomo, affascinante e, potremmo dire, bello insieme fisicamente, psicologicamente e spiritualmente: una caratteristica questa di cui parla già il Vangelo di Giovanni che descrive Gesù come ho poimèn ho kalós, il bel pastore (ma il passo viene tradotto generalmente come il buon pastore). Jesus è un uomo che ama la vita, la verità e la bellezza: quella possibile nel rapporto libero, franco, autentico tra gli esseri umani, quella della natura, quella depositata nelle grandi opere d’arte.

I grandi scrittori vengono citati, per lo più nascostamente, come una sorta di supremi testimoni: Shakespeare (Re Lear, Romeo e Giulietta …), Dostoevskij, che Jesus rilegge di continuo, Dante, che è presente in molti modi (la bellissima terzina del canto X del Paradiso sull’anima come ‘angelica farfalla’, la storia d’amore di Paolo e Francesca, l’inizio della Divina Commedia, nella traduzione milanese di Carlo Porta: deve servire a consolare un popolano, si dà per scontato che il dialetto sia la sua lingua madre e dunque per lui una forma di espressione dell’intimità) e poi il Salmo 77 sul dovere di ricordare e di tramandare il ricordo alle giovani generazioni, e chissà quante fonti altre che non riconosciamo, perché sono incastonate sommessamente nel testo.

La testimone centrale di questa vicenda è l’operatrice addetta alla sorveglianza di Maria, che dapprima conosciamo solo con un numero: scopriamo dopo il suo nome, Lusine, e assistiamo un po’ per volta alla sua umanizzazione, che culmina con il sogno in cui incontra Gesù vivo dopo la morte. «Lei e Jesus stanno passeggiando insieme sulla riva di un lago, lui le sorride circondandole la vita» (p.180) .… «Jesus la sta rimproverando con dolcezza: “Come hai potuto pensare che io fossi morto?” “Ma tu sei morto davvero, conosco la fossa dove ti hanno interrato” ribatte Lusine sbalordita. Lui ride: “E con questo? Morire è solo non essere visti …”»

w.m.

[Laura Pariani, Di ferro e d’acciaio, NNE, Milano, 2018]


Walter Minella - l'autore di questa recensione - ha insegnato storia e filosofia nei Licei. Tra le sue pubblicazioni: Il dibattito sul dispotismo orientale. Cina, Russia e società arcaiche (1991). Ha tradotto il breve saggio di Varlam Tichonovič Šalamov, il grande testimone dei Gulag, Tavola di moltiplicazione per giovani poeti (2012), ha curato la pubblicazione del libro postumo di Pietro Prini, Ventisei secoli nel mondo dei filosofi (2015) e ha scritto la monografia Pietro Prini (2016).

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