Segnalazioni librarie


Alessandro Piperno, Aria di famiglia, Mondadori 2024

Alessandro Piperno non ha bisogno di presentazioni, vanta la vincita del Campiello agli esordi nel 2005 con il chiacchieratissimo Con le peggiori intenzioni, e lo Strega nel 2012. Ci ha regalato poderosi e ricchi romanzi che lo hanno consacrato tra le voci più forti della nostra narrativa. La sua prosa si differenzia dal mare magnum della scrittura nostrana, svettando per alcune ragioni che vengo ad accennare: in primo luogo nutre fede nella letteratura e crede fermamente che il romanzo classico non sia affatto morto. Parliamo del romanzo tradizionale, ottocentesco, dei grandi, da Dickens a Balzac che lui confessa di amare senza remore. Ciò vuol dire che in un consesso di scrittori ombelicali che dai confini angusti dell’autofiction non sanno andare e ci ammanniscono libri sui loro papà, sui loro lutti, sulla loro adolescenza, sulle mamme, sui primi amori, sui figli morti, sulla malattia incurabile delle sorelle e così via Piperno vola alto e ci dona trame poderose e plot complessi che, pur partendo, a volte, da un io narrante che potrebbe apparire autoriferito, in realtà vanno ben oltre.
In seconda battuta Piperno è felicemente a-ideologico e quindi inevitabilmente non troppo amato nei salotti buoni. Per peggiorare le cose ambienta le epopee di cui narra in un milieu alto borghese, specificatamente nell’ambito della ricca borghesia ebraica romana, ambiente da cui proviene e che conosce a fondo. Non è uno scrittore di quelli che fanno del pauperismo un’ipocrita e noiosissima bandiera e che da noi vanno per la maggiore.
Aria di famiglia, ci ripropone il personaggio chiave del precedente Di chi è la colpa, Alessandro Sacerdoti non più ragazzo, ma maturo cinquantenne, professore universitario e scrittore colto in un momento difficile della sua vita, non per nulla il romanzo si apre con un funerale come la Pastorale americana di Roth: muore la compagna di banco dei tempi del liceo e in un party commemorativo che volentieri avrebbe evitato si trova plasticamente di fronte l’evidenza del tempo che scivola via. Il professor Sacerdoti è un uomo solo, stanco, senza motivazioni che è stufo sia di scrivere che di insegnare. Qualcuno in università, una sua ex allieva ora collega con il dente avvelenato, con la complicità di sciocche studentesse monta un’accusa di sessismo e lo porta davanti ad una commissione disciplinare per aver riportato frasi di Flaubert fortemente antifemminili e lui, invece di smorzare il caso, rinuncia alla difesa finché lo sdegno pilotato trabocca nei social e lo travolge costringendolo alle dimissioni. Vende una lussuosa villa di famiglia e si prepara ad affrontare la vecchiaia senza illusioni, senza speranze, senza lavoro con una rendita appena sufficiente per tirare avanti. E a questo punto il narratore introduce un elemento che spariglia la vita del personaggio e dà corpo alla sequenza degli eventi il turning point della narrazione, come lui stesso scrive: accade che una giovane cugina da parte di madre, sposata con un facoltoso inglese, perda la vita assieme al marito in un incidente di montagna lasciando orfano un figlio di otto anni, Noha.

Il professor Sacerdoti si rivela essere l’unica chance per il ragazzino, ma se da un lato è un misantropo che ha sempre rifiutato di fare famiglia reputando i bambini uno spaventoso ingombro, dall’altro lui stesso è stato a sua volta un orfano allevato da uno zio, come splendidamente narrato nel precedente romanzo. Alla fine, si convince e con mille paure accetta di farsene carico. Memorabile la pagina in cui l’autore descrive il primo incontro fra i due in un istituto di Milano: lo zio coglie negli occhi bassi del bambino quell’aria di famiglia che aveva dimenticato: lo sguardo di sua madre, di suo zio, il retaggio ebraico lasciato alle spalle e su questo aspetto iniziano i primi problemi: il professore è un agnostico del tutto assimilato, il piccolo, invece, nei suoi otto anni è stato educato in modo rigidamente confessionale: infatti il primo gesto che compie ogni mattina al risveglio è indossare lo zucchetto. La trama dickensiana del povero orfano che trova il suo riscatto sembrerebbe incrociarsi con quella dell’introverso solitario che scopre a cinquant’anni la felicità della vita a due e gli assilli della paternità.
Non andrà naturalmente così: l’ironia raffinata di Piperno, sapientemente dosata, porterà gli eventi in tutt’altra direzione costruendo un edificio complesso che sfiora moltissime problematiche, ma sta bene alla larga da ogni semplificazione, da ogni didatticismo e soprattutto dal pericolo del lieto fine.

 

Valentina Durante, L’abbandono, La nave di Teseo, 2024

Valentina Durante, classe 1975, nata in Veneto, voce complessa della nostra narrativa, è con L’abbandono al terzo romanzo dopo l’esordio nel 2019.
L’azione si svolge apparentemente nell’arco di otto ore, dal tardo pomeriggio a notte inoltrata e vede in scena due personaggi: un padre settantenne male in arnese e ripiegato su se stesso, ipocondriaco, ostaggio delle sue malattie vere o presunte; lo accudisce la figlia, senza nome sino quasi alla fine, tornata a vivere con lui dopo che questi si è trovato solo, senza l’appoggio della sorella, che rinunciando a farsi una vita tutta sua, era subentrata nella gestione della casa per accudirlo assieme ai due figli, rivendicando naturalmente la grandezza del suo sacrificio. Lentamente queste informazioni ci provengono dai continui flashbacks che intermezzano i dialoghi di quella sera. Merito di una scrittura calibrata, sorvegliatissima di una precisione algida, vivacizzata da scambi di battute realissime e indiscutibili, ci appare vivido l’excursus di vita del nucleo famigliare. Agli occhi della giovane donna stanno insormontabili alcuni fatti del passato, pesanti come macigni: la morte prematura della madre che la lascia da bambina, la durezza solipsistica del padre che non ha affetto per nulla e per nessuno; di conseguenza il rapporto di simbiosi con il fratello di pochi anni più grande. Questo fratello, anch’esso innominato sino alla fine, è stato un’ancora di salvezza che si è trasformato in un gorgo oscuro. Da ventitré anni non vede più né il padre, né la zia: è stato cacciato di casa con il pretesto di avvicinarlo all’università dove nel giro di pochi anni si laurea, si specializza ed ora, al tempo della narrazione, è considerato un cardiochirurgo di fama internazionale, ma nel privato è un uomo solo, acido, anche lui come il padre, narcisisticamente ripiegato su se stesso. La sorella ne condivide il destino: dopo un matrimonio senza amore durato undici anni è ritornata a vivere nella casa che l’ha vista bambina, nel nido dei suoi incubi e del suo primo dissennato amore. Da decenni non osa guardarsi le mani e le tiene costantemente protette da guanti di cotone bianchi.
Oltre non conviene andare per non levare al lettore l’arduo piacere di questo romanzo. Arduo, perché ossessionato dall’angoscia della morte rappresentata con stralci dei dossier che il vecchio professore stila sui cadaveri senza identità che ogni anno vengono catalogati da un ente apposito: un passatempo folle e un po’ delirante come gli fanno capire la figlia e la vecchia sorella, ma che lui si ostina a proseguire.
Forse in questo potremmo trovare un barlume di humor nero che vada a compensare una scrittura dura e liscia come un diamante e scevra da qualsiasi spiraglio di ironia. Qualcuno ha giustamente ricordato per questo dramma psicologico germinato nel quadro di una famiglia disfunzionale la narrativa del primo Moravia che aveva come bersaglio la famiglia borghese. C’è del vero, anche se L’abbandono ha tutt’altra caratura e mostra nella scrittura il taglio evidente della contemporaneità: non per nulla Valentina Durante è docente di scrittura creativa alla corte di Giulio Mozzi.

 

Luigi Dell'Orbo, nato nel 1962 in provincia di Pavia, vive da decenni in Piemonte, tenendo comunque vive le proprie radici lombarde.
Lettore appassionato e puntuale si occupa prevalentemente di narrativa italiana contemporanea.

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