Crisi e risorse del cristianesimo nel mondo post-moderno


“Negli ultimi due o tre secoli abbiamo assistito in Europa a una vera e propria rivoluzione: il riferimento al mondo divino, incarnato dalla religione, ha cominciato a cedere il passo a valori laici. Siamo sempre in rapporto con qualcosa di assoluto e di sacro, che però ha lasciato il cielo per scendere sulla terra. Non si tratta di affermare che da quel momento per gli europei ‘la religione è morta’… Le esperienze strettamente religiose e la fede in Dio – comunque venga chiamata – non sono affatto scomparse tra i nostri contemporanei. La religione, tuttavia, non rappresenta più il quadro obbligatorio che struttura sia la società nel suo complesso sia l’esperienza degli individui; le credenze religiose in senso stretto oggi sono una tra le tante forme di questa ricerca e la loro scelta è diventata una questione personale”. Così Tzvetan Todorov descriveva nel 2006 la cultura post-secolare, in un bel libro che nell’edizione originale era intitolato Gli avventurieri dell’assoluto (Les Aventuriers de l’absolu) e che nella traduzione italiana è diventato La bellezza salverà il mondo (1). A questa cultura fanno variamente riferimento i tre libri sul Cristianesimo che presentiamo qui, di Jullien, Piazzoli e Spong.

François Jullien è un filosofo, un sinologo e un grecista. Dall’alto di questa triplice competenza affronta la questione della “Risorse del cristianesimo ma senza passare attraverso la via della fede”. Già il titolo, nella sua ambiguità, è interessante - e paradossale. Vuol dire che a) anche per noi esseri umani dell’epoca post-moderna il cristianesimo può proporre delle “risorse”, cioè delle prospettive capaci di rendere più larga e più profonda la nostra esperienza della vita b) questo riconoscimento non passa necessariamente (come in passato) attraverso le istituzioni religiose ma può avvenire anche dall’esterno: così si può ammirare la cultura taoista o quella confuciana (che Jullien ha studiato come sinologo) senza per questo aderirvi in modo totalizzante. [Le risorse] “non si scomunicano: posso avvalermi delle risorse del pensiero cristiano come anche di quelle del pensiero taoista e le une si riflettono a partire dalle altre”(p. 28).

Jullien scrive in un modo elegante, raffinato e fondamentalmente chiaro (unica eccezione, le due pagine 58-59, che il lettore può tranquillamente saltare). Egli analizza in particolare il Vangelo di Giovanni e il suo strumento di lavoro principale è la filologia greca. A suo parere, già il fatto che il messaggio evangelico ci sia giunto tradotto dall’aramaico parlato da Gesù al greco, la lingua in cui si era sviluppata la filosofia, costituisce una risorsa del cristianesimo. Ma nelle traduzioni contemporanee del Nuovo Testamento si è depositata una patina di normalizzazione, che ci fa perdere alcune delle asperità, cioè degli aspetti più innovativi e paradossali del messaggio, in particolare di Giovanni. Jullien procede allora a una ritraduzione di alcuni passi centrali del testo giovanneo nella loro letterarietà. Da questa operazione filologica e filosofica insieme emergono effettivamente prospettive nuove, che danno da pensare. Anzitutto Giovanni “spinge all’estremo il pensiero del divenire-avvento” (p.48), cioè la considerazione delle possibilità di una svolta radicale nella vita di ciascuno. “L’evento può cambiare tutto: possiamo ‘diventare sani’, da infermi che eravamo; [l’evento] può farci entrare dentro una vita totalmente altra e … per mezzo di esso, l’impossibile diventa possibile”. Il Gesù di Giovanni, nell’interpretazione di Jullien, è concentrato sul problema della vita (zoé): come rendere più ampia, profonda, intensa l’esperienza della vita, come evitare di cadere nella palude della morte in vita (così frequente ai nostri giorni), come accedere alle fonti della vita. Nasce da qui il paradosso della zoé (pienezza di vita, vita in sovrabbondanza) in rapporto alla psyché (soffio vitale, vita individuale): chi non è capace di abbandonare (‘deporre’) la propria psyché non può accedere alla zoé. “C’è bisogno dunque che la vita in quanto tale ‘muoia’ (‘Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore …’ Giovanni 12.24), de-coincida dal suo adeguamento-adattamento che l’affossa e la sterilizza, affinché essa si promuova in quanto vita”(p. 73). Questo principio vale tanto per l’essere umano quanto per Dio: “l’intelligenza di Giovanni – da cui discende una risorsa essenziale per il cristianesimo – sta nella comprensione che se Dio coincidesse con sé stesso sarebbe un Dio morto. Al contrario, è de-coincidendo da sé [attraverso l’incarnazione] che è vita vera e che fa vivere”(p. 70). Lo strumento privilegiato per realizzare questa ‘de-coincidenza’, ciò che permette di accedere alla vita profonda, intensa, vera è l’agápe, l’amore per l’Altro (per Dio e per gli altri), come forma paradossale di amore per sé (cfr. a pp. 108-112 le osservazioni fini e profonde che Jullien fa sull’amore- agápe). Molto si potrebbe dire ancora di questo breve, denso libro: per esempio sulla differenza tra credere a (una teoria, un dogma oppure anche a Babbo Natale …) e credere in (una persona amata, Gesù Cristo…); oppure sullo slittamento, nel mondo cristiano, del termine testimonianza da un senso strettamente giuridico, quale possedeva nel mondo ebraico e in quello greco-romano, a un senso esistenziale, che cioè riguarda una verità non scientifica ma attiene al giusto modo di condurre la propria vita (testimoniare attraverso la propria vita); oppure l’ambivalenza del termine ‘mondo’ in Giovanni. Spero che il lettore di questa recensione, incuriosito, si confronti con il testo di Jullien nella sua interezza.

Adalberto Piazzoli è un illustre fisico nucleare, professore emerito dell’Università di Pavia. Lo conosco personalmente ed ammiro, oltre alle sue competenze scientifiche, la sua onestà intellettuale, che è un modo per essere “onesto verso Dio” (come diceva il titolo di un celebre libro di un vescovo e teologo anglicano, John A.T. Robinson, che fece scalpore negli anni Sessanta). Lo strumento di cui Piazzoli si avvale per accostarsi allo studio dei “Due Testamenti” è costituito dalle sue conoscenze fisico-matematiche. E’ uno strumento utile? Senz’altro sì, perché l’Antico e il Nuovo Testamento sono impregnati di concezioni del mondo arcaiche, mitologiche, se non favolistiche. E presentano (soprattutto l’Antico Testamento) aspetti ripugnanti per la normale coscienza morale contemporanea. Ma le istituzioni ecclesiastiche sono, almeno nelle proclamazioni ufficiali, tenacemente legate alla lettera del testo sacro (‘parola di Dio’), sia pure con autocritiche molto parziali e molto ritardate. L’autore mette in risalto incongruenze, assurdità, illogicità di cui i testi sacri sono pieni, se considerati dal punto di vista contemporaneo. L’effetto di questa sua opera, che potremmo definire di demitizzazione, utilizzando il termine coniato dal grande teologo evangelico Rudolf Bultmann, è sorprendente, curioso, spiazzante e anche talvolta divertente (qualche volta sembra di leggere Voltaire: e questo è per me un grande elogio). Si potrebbe obiettare che i teologi più avvertiti riconoscono la verità di gran parte delle contestazioni mosse da Piazzoli: e sarebbe vero. Ma è altrettanto vero che si tratta di mosche bianche (in particolare all’interno del cattolicesimo italiano, uno dei più culturalmente arretrati d’Europa). I preti di base, ma soprattutto le istituzioni ecclesiastiche, ignorano molto spesso le verità scientifiche, ancorandosi a un vecchio paradigma tradizionalista. E in questo la critica di Piazzoli è perfettamente centrata.

E tuttavia, secondo me, manca nel testo di Piazzoli qualcosa di importante: direi che manca il mito. Il mito non è riducibile al logos (alla ragione), non è una metafora infantile, non è una favola per bambini. Il mito è una forma di accesso al Sacro, anzi è la lingua originaria del Sacro, come Jaspers mostrò a Bultmann in un celebre dibattito sulla demitizzazione (e Bultmann prese atto con rispetto delle osservazioni del filosofo) (2). In sostanza penso (e credo che anche Piazzoli sia d’accordo) che, nonostante tutti i limiti da lui individuati, la Bibbia ebraica e il Nuovo Testamento rimangano, in alcuni loro momenti salienti, la testimonianza di un’esperienza preziosa, di incontro con il divino, espressa con gli strumenti linguistici e concettuali disponibili a quel tempo. Questa esperienza oggi potrebbe essere recuperata, in alcuni suoi tratti universalmente validi, ma sarebbe necessaria una sua traduzione in forme compatibili con la coscienza moderna. In sintesi, a mio parere il libro di Piazzoli costituisce una provocazione intellettuale utilissima, con cui i cattolici, e in genere i cristiani, farebbero bene a confrontarsi. Ma chissà se avverrà.

La quarta di copertina finisce con questa frase: “il libretto termina con l’auspicio di una ‘riformulazione’ del cristianesimo, così come viene proposto dal vescovo episcopale Spong, che lo renda più accettabile all’uomo moderno”. L’ultimo libro di Spong uscito in italiano si intitola Perché il cristianesimo deve cambiare o morire, a cura di don Ferdinando Sudati, il presbitero della diocesi di Lodi che sta svolgendo da anni un lavoro meritorio di traduzione e presentazione delle tesi del vescovo e teologo episcopale (gli episcopali sono gli anglicani statunitensi). Spong è un esperto di critica storica sia veterotestamentaria, grazie alla sua conoscenza approfondita della cultura ebraica, sia neotestamentaria, grazie alla sua familiarità altrettanto profonda con il greco evangelico; è inoltre un teologo raffinato; è infine uno scrittore di una chiarezza cristallina, con una formidabile capacità di divulgazione. A suo parere il cristiano di oggi si trova in un esilio comparabile a quello subito dagli ebrei dopo la distruzione di Gerusalemme, e in particolare del tempio, ad opera di Nabucodonosor nel 586 a.C.: la deportazione del popolo ebraico rendeva impraticabile la vecchia fede, imperniata sul culto prestato nel tempio. Il nostro esilio però non è spaziale, è temporale, è cioè un esilio dal passato: la diffusione delle conoscenze scientifiche contemporanee rende non più credibili le formule in cui nei primi secoli è stata pensata l’esperienza della fede in Dio, quale si era rivelato nella vita di Gesù. Occorre abbandonare l’immagine teista di Dio (un essere supremo che dimora al di sopra di questo mondo e che da ‘lassù’ interviene nelle vicende umane al di fuori delle leggi naturali). Bisogna trovare, dice Spong, altre formule, “tentando di parlare di Dio in categorie non personali e come il Fondamento di tutto l’Essere, la Fonte della Vita e la Fonte dell’Amore … Nell’essere di Gesù vediamo una rivelazione della Fondamento dell’Essere. Nella sua vita vediamo una rivelazione della Fonte della Vita. Nel suo amore vediamo una rivelazione della Fonte dell’Amore. Questi erano gli aspetti della sua presenza umana che fecero la sua vita così eccezionale e così avvincente che le persone erano indotte a parlare di lui nei termini delle immagini teistiche dell’antichità” (pp. 166-167). Questo è, secondo Spong, il senso più profondo dell’esperienza narrata e insieme interpretata nella tradizione cristiana - prima dai diversi autori del Vangelo (il teologo espone in modo straordinariamente chiaro lo sviluppo dell’immagine di Gesù “figlio di Dio”, nel passaggio da Paolo a Marco a Matteo a Luca a Giovanni) (pp. 101-112) e poi dalla patristica (in termini che derivano dal neoplatonismo). In sintesi: oggi è la scienza, non più Plotino, la concezione con cui il cattolicesimo moderno dovrebbe confrontarsi. Vorrà farlo? Sarà capace di farlo? La questione è aperta. Purché, dice Spong, venga avvertita nella sua bruciante attualità e non rimossa, occultata, nascosta, oppure sostituita da pseudospiegazioni (per esempio: la gente in Occidente crede sempre meno al Dio cristiano tradizionale perché sedotta da Satana sciolto dalle catene - una delle presunte rivelazioni di Medjugorje). Un’ultima osservazione. Queste critiche alla teologia fondamentale del cattolicesimo attuale non tolgono nulla al rispetto, anzi all’ammirazione per la presenza concreta sul territorio di molte figure del mondo cattolico, a cominciare dallo splendido papa Francesco: testimoni di umanità, presidio di civiltà.

P.S. Naturalmente saremmo lieti di ospitare altri interventi – osservazioni, critiche, approfondimenti – sui temi sopra ricordati (per contatti walter.minella@gmail.com)

w.m.

 

[François JULLIEN, Risorse del cristianesimo, ma senza passare per la via della fede, tr. di Chiara Pollaroli ed Elisa Vertua, Ponte alle Grazie Milano 2019, 117 pagine 14 euro]

[Adalberto PIAZZOLI, I due Testamenti. Una lettura critica della Bibbia, Medea, Pavia 2019, 139 pagine, 20 euro]

[John Shelby SPONG, Perché il cristianesimo deve cambiare o morire, tr. di Margherita Garzillo e Vincenzo Ostuni, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2019, 279 pagine, 25 euro]


1 - Tzvetan Todorov, La bellezza salverà il mondo, Garzanti, Milano 2010 .

2 - Karl Jaspers-Rudolf Bultmann, Il problema della demitizzazione, a cura di Roberto Celada Bollanti, Morcelliana Brescia (1995) 2018.


Walter Minella - l'autore di questa recensione - ha insegnato storia e filosofia nei Licei. Tra le sue pubblicazioni: Il dibattito sul dispotismo orientale. Cina, Russia e società arcaiche (1991). Ha tradotto il breve saggio di Varlam Tichonovič Šalamov, il grande testimone dei Gulag, Tavola di moltiplicazione per giovani poeti (2012), ha curato la pubblicazione del libro postumo di Pietro Prini, Ventisei secoli nel mondo dei filosofi (2015) e ha scritto la monografia Pietro Prini (2016).

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