Romano Màdera, Carl Gustav Jung

Romano Màdera, Carl Gustav Jung

Nella sterminata bibliografia su Jung (1875-1961), il celebre psicologo e psicoterapeuta svizzero, quale posto occupa questo saggio di Romano Màdera? Si potrebbe definirlo come un tentativo di valutare l’attualità del pensiero di Jung, grazie alle duplici competenze dell’autore, che è insieme filosofo e psicoterapeuta. Il presupposto di questa riflessione è di verificare se il malessere psicologico di fronte a cui si trovava Jung, nella sua pratica clinica e nella sua vicenda autobiografica, sia essenzialmente lo stesso che assilla oggi le società tardo-moderne o post-moderne. La risposta è positiva. Potremmo qualificare questo disagio come mancanza di prospettive, senso di sradicamento, disorientamento vitale, svuotamento. (E’ appena il caso di aggiungere che, nel determinare questa situazione psicologica, sono all’opera non solo fattori culturali, ma anche processi sociali molto precisi, soprattutto in Italia: ma essi concorrono a spiegare la situazione, non la spiegano da soli).

Il filosofo che nel modo più drammatico era andato al cuore di questa questione era stato Nietzsche, con la sua proclamazione della “morte di Dio”, causata dal sopravvenire della conoscenza scientifica. Secondo il filosofo tedesco si trattava di una svolta tragica nella storia dell’umanità, che avrebbe potuto essere riscattata soltanto con il progetto di fare dell’uomo un dio capace di riformulare a suo piacere e arbitrio le regole del bene e del male (questo è il significato fondamentale del superuomo o oltreuomo nicciano). La catastrofe di Nietzsche a Torino, cioè il suo sprofondare nella follia, ma soprattutto le tante tragedie di un Novecento che ha assorbito senza capirlo il suo amoralismo, ci hanno provato fino in fondo quanto terribile sia questa pretesa. E tuttavia, rimane in tutta la gravità il problema posto da Nietzsche: potremmo definirlo come il problema del senso della vita per noi, donne e uomini del tardo Occidente - qualcosa che, nell’età della scienza e della tecnica, sta al di là della scienza e della tecnica.

Jung si confrontò a lungo con Nietzsche (a questo confronto è dedicato un capitolo del libro, Dio è morto? Risposta a Nietzsche, pp. 79-94). La tesi di Jung può essere enunciata così, in linea di principio: il Sacro, il Numinoso, Dio non è una realtà di pensiero ormai deperita, anche se molti aspetti della visione tradizionale di Dio non sono più accettabili (per es. il ricorso a Dio come grande spiegazione dei fenomeni naturali ecc.). Si tratta invece di una dimensione costitutiva e irrinunciabile dell’umano, che ha innervato tutte le grandi culture e a cui oggi bisogna saper tornare, attraverso “un accesso nuovo, consapevole di un passaggio d’epoca drammatico, alla Grande Memoria dell’umano” (p.10). Tale Memoria ha le sue scaturigini nell’inconscio, che non è semplicemente, come pensava Freud, il maestro di Jung da cui poi egli si staccò, “un crogiolo di passioni incontrollabili e di desideri distruttivi, ma può essere concepito come una struttura mentale coesa e attiva, che ci aiuta a valutare continuamente le esperienze che viviamo, e a cui rispondiamo con i nostri schemi interpretativi” (M. Ammanniti, p.147). Da qui la differenza di principio di Jung rispetto a Freud: “il fenomeno della sacralità, fondamento di tutte le civiltà precedenti a quella moderna, se può essere spiegato a partire dai residui arcaici presenti nell’infanzia di ogni essere umano [come in Freud], può mantenere solo un significato illusorio … viceversa, [in Jung] la soggettività del singolo può essere compresa a fondo solo vedendola, per contrasto, sullo sfondo di potenze collettive che sono all’opera in essa e che essa può interrogare e affrontare per darne una versione individuata o, all’opposto, può essa stessa venirne travolta”(p. 39). Secondo Jung (in una lettera del 1945) “l’accesso al numinoso [al sacro] è la vera terapia, e nella misura in cui si arriva all’esperienza numinosa si è salvati dalla maledizione della malattia [psichica]” (p.96). E, in uno scritto del 1929, egli aveva affermato che “circa un terzo dei miei casi non soffre di una nevrosi clinicamente determinabile, bensì del fatto di non trovare senso e scopo della vita. Non ho nulla in contrario a che questo stato sia definito nevrosi comune del nostro tempo” (p.97). Anche perché, se Dio non c’è, resta soltanto l’Io: “il pericolo che corriamo è quello di sostituirci a Dio, di fare a meno di Dio perché i nostri piccoli e risibili ego si erigono a nuovi dei: è l’inflazione [psichica]” (p.81), ossia quel prevalere dell’individualismo narcisisticamente ripiegato su se stesso come tratto sociale fondamentale, a cui fa da controcanto la “svalutazione” psichica, cioè la tendenza alla depressione. Questa bipolarità riflette, sul piano individuale, la struttura sociale prevalente nella nostra cultura, plasmata dal tardo-capitalismo, osserva Madera (qui si avverte l’influenza di Marx, un autore che è stato fondamentale anche per lui, che appartiene alla generazione del ’68 e che, a mio parere giustamente, tende a rileggere le dinamiche psicologiche correlandole con i processi storico-sociali). In questo ottundimento generale di una coscienza che si pensa realistica perché è cinica, riappare con virulenza il fenomeno che in termini tecnici viene definito di “pseudospeciazione” (Eibl-Eibensfeld) (p.70 sg.), ossia la considerazione del diverso, dello straniero, dell’altro come un essere mostruoso non veramente appartenente a ‘noi’, alla specie umana e insieme come colui che è la causa dei nostri mali (il capro espiatorio), che per questo deve essere soppresso, o quanto meno allontanato. (Ma già l’antica sapienza indiana sapeva che “tu sei quello”, ossia che è una parte di noi stessi quella che viene espulsa, proiettata sull’altro e negata nella sua umana dignità).

Secondo Jung è possibile raggiungere la maturità (nel gergo junghiano, l’individuazione) oltrepassando la ricerca di modelli, l’imitazione tradizionalista (“guai a coloro che vivono seguendo dei modelli!” dice Jung nel Libro Rosso, p. 19), diventando se stessi attraverso un ascolto attento, e magari una raffigurazione autonoma, ricca di simbolismi, dei messaggi spesso ambigui che a ciascuno, nella concretezza della sua esperienza biografica, vengono inviati da proprio inconscio (che è poi un’articolazione di un patrimonio comune di esperienze sedimentate dell’umanità, l’inconscio collettivo). Ma allora si riapre la strada, che sembrava sbarrata per sempre dopo Nietzsche, per una rimeditazione attualizzante delle diverse forme di sapienza, occidentale e orientale, che si incentrano proprio sul rapporto con il Sacro o il divino. In questo recupero, che è delineato in particolare nel capitolo finale, “Psicologia storico-biografica, filosofia come stile di vita e spiritualità laica” (pp. 121-133), è particolarmente rilevante, secondo Madera, la mediazione di Pierre Hadot, il grande storico della filosofia greco-romana. Un’ultima questione importante: la cosiddetta coniunctio oppositorum, la congiunzione degli opposti, tanto in Dio quanto nella persona matura. “Jung sarà impegnato tutta la vita a segnalare la necessità, offerta dall’indagine dell’inconscio dei suoi contemporanei …, di ‘completare’ l’immagine trinitaria di Dio con un quarto elemento che porta con sé, insieme, l’elemento femminile, quello terrestre e la parte in ombra, attribuita al male e al diavolo” (p.42).

Un’osservazione finale. Questo libro non è rivolto unicamente agli specialisti e, tranne in alcuni passaggi molto tecnici, generalmente si presenta con una apprezzabile chiarezza di scrittura, amichevole verso il lettore.

w.m.

[Romano Màdera, Carl Gustav Jung, Feltrinelli, Milano, 2016]


Walter Minella - l'autore di questa recensione - ha insegnato storia e filosofia nei Licei. Tra le sue pubblicazioni: Il dibattito sul dispotismo orientale. Cina, Russia e società arcaiche (1991). Ha tradotto il breve saggio di Varlam Tichonovič Šalamov, il grande testimone dei Gulag, Tavola di moltiplicazione per giovani poeti (2012), ha curato la pubblicazione del libro postumo di Pietro Prini, Ventisei secoli nel mondo dei filosofi (2015) e ha scritto la monografia Pietro Prini (2016).

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