Le esplorazioni lunari nell'immaginario scientifico


“Che fai tu luna in ciel, dimmi, che fai?”
(Giacomo Leopardi Canto notturno di un pastore errante dell’Asia)

“E' difficile dire che cosa è o non è impossibile, perché il sogno di ieri è la speranza di oggi e la realtà di domani”
Dr. Robert Hutchings Goddard

Poiché sono trascorsi cinquant’anni dallo sbarco sulla Luna della missione Apollo 11, in questo periodo sono usciti un mucchio di libri che si occupano dell’argomento, per non parlare di ciò che è uscito in edicola e in televisione. È difficile dunque trovare qualcosa di originale da dire.

Si potrebbe parlare dell’ispirazione che la Luna ha avuto su poeti e artisti (per questo ho scelto di iniziare con Leopardi) ma lo stanno già facendo in tanti e molto meglio di quanto potrebbe il sottoscritto.

Oppure si potrebbe scrivere un reportage dettagliato su ciò che è accaduto quel giorno, ma anche qui i giornalisti più famosi stanno facendo a gara per realizzare il proprio. Per esempio è appena uscito “Luna” di Bruno Vespa: semplice e scorrevole, ma preciso, documentato ed esauriente. Complimenti a Vespa, anche se io continuo a preferire “Un fuoco sulla Luna” (A fire on the moon) di Norman Mailer e “Quel giorno sulla Luna” di Oriana Fallaci. E chi sono io per mettermi a confronto con gente di questo livello?

Si potrebbe anche affrontare il tema del viaggio sulla Luna dal punto di vista della narrativa fantastica e dell’immaginario. Subito verrebbero fuori i nomi di Luciano di Samosata, di Cyrano de Bergerac, del Barone di Munchausen, di Ludovico Ariosto che spedisce Astolfo sulla Luna a cavallo dell’Ippogrifo e via via tutti gli altri. Ma anche questo è già stato fatto abbondantemente (li cita anche Vespa nel suo reportage) e dunque sarebbe una ripetizione di cose abbastanza note.

Quasi nessuno però si è occupato di dire che cosa hanno scritto e pensato sull’argomento gli scrittori di fantascienza. Non parlo dei “soliti” Verne e Wells, che Dio li abbia in gloria: “Dalla Terra alla Luna” (De la Terre a la Lune, 1865) e “I primi uomini sulla Luna” (The first men in the moon, 1901) sono ben noti anche al pubblico non specializzato e non hanno bisogno di essere commentati. Mi riferisco invece agli scrittori della  science fiction americana moderna, che hanno fatto moltissimo per diffondere l’idea che si poteva andare nello spazio e sbarcare sulla Luna e su Marte. Hanno convinto una intera generazione di americani a crederci e poi, quando è successo, non hanno ricevuto alcun riconoscimento per il loro impegno.

Tutto ha avuto inizio tra il 1938 e il 1939, quando venne chiamato a dirigere una rivista popolare dell’epoca intitolata “Astounding Stories” (Storie stupefacenti) uno scrittore di fantascienza di nome John W. Campbell jr. Costui si era costruito una certa reputazione con storie mirabolanti di super-scienza e di avventure spaziali nel lontano futuro: per farvene un’idea, potete pensare a una versione più ingenua di Star Wars. Una volta assunta la direzione della rivista, però, Campbell prese una direzione completamente diversa. Si convinse che era il momento di diffondere in modo popolare la cultura scientifica, che si poteva (anzi si doveva) insegnare alle nuove generazioni che era possibile viaggiare davvero nello spazio, che era possibile utilizzare per scopi pacifici l’energia atomica, che la teoria della Relatività di Einstein non era un punto di arrivo, ma solo un punto di partenza per altre scoperte.  Roba da far tremare i polsi.

Per portare avanti il suo progetto, Campbell rinunciò a scrivere in proprio, anche se diede il suo contributo all’epopea della conquista della Luna con il breve romanzo “Martirio lunare” (The moon is hell!, 1950) che descrive in toni alla Robinson Crusoe la sopravvivenza di un gruppo di astronauti naufraghi in un inferno squallido e raggelato”, fino all’arrivo dei soccorsi dalla Terra. Preferì invece  dedicarsi alla coltivazione di nuovi talenti. Ben presto si trovò circondato da un gruppo di giovani pieni di idee e di entusiasmo per il futuro. C’erano personaggi poco più che ventenni e con poca esperienza come scrittori, ma che portavano nomi come Isaac Asimov, Robert Heinlein, Lester Del Rey, George O. Smith. Campbell pretendeva da loro alcune cose: un certo approfondimento psicologico dei personaggi (non potevano più essere degli stereotipi come nella narrativa d’avventura), un solido realismo delle descrizioni, un uso appropriato della scienza e una attenzione alle conseguenze logiche rispetto alle premesse. E poi idee, idee nuove a profusione. Quando un autore non aveva una idea nuova, o non la stava sviluppando correttamente, Campbell stesso gliene suggeriva qualcuna.

Non erano però idee campate in aria, come qualcuno sembra ritenere: sovente gli autori erano in contatto con il mondo della scienza e si limitavano ad anticipare in forma narrativa ciò che gli scienziati pensavano che si sarebbe potuto realizzare. Del resto, molti di questi scrittori avevano una formazione di tipo scientifico: Asimov era un biochimico, Heinlein un ingegnere idraulico e un ufficiale di marina, Philip Latham e Hal Clement due noti astronomi, e così via. Per dare un’idea di come funzionava il “brain storming” tra Campbell e i suoi autori, riporto qui alcuni commenti del direttore.

“Basta con gli alieni che invadono il nostro pianeta per impadronirsi delle più belle figlie della Terra. Se i criteri estetici di questi alieni fossero solamente un po’ diversi dai nostri, questo tipo di invasione potrebbe rivelarsi un vero tormento per la popolazione dei gorilla”.

“Non accetterò più racconti basati su premesse dichiaratamente contrarie alla scienza. Non si può descrivere un pianeta con una atmosfera composta in parti uguali di ossigeno e metano, perché formerebbero una miscela esplosiva e il pianeta sarebbe già stato distrutto.”

“Voglio autori nuovi, con idee fresche. Se vogliono guadagnare  abbastanza da mantenerci la famiglia non è il campo adatto a loro, ma con quello che li pago potrebbero magari comperarsi un nuovo regolo calcolatore.” 

Ma come vedevano gli scrittori di quell’epoca la conquista della Luna?

A pochi anni dall’inizio della cosiddetta “golden age” della fantascienza di Astounding Stories, la guerra mondiale era finita e negli Stati Uniti erano arrivati alcuni scienziati tedeschi, tra i quali Hermann Oberth (uno dei padri fondatori della missilistica e dell’astronautica) e Wernher Von Braun (il costruttore delle bombe volanti V1 e V2). Pur di sviluppare alla svelta i propri progetti spaziali, il governo americano era ben lieto di scordarsi del passato nazista di questo gruppo di scienziati. Dal canto loro, questi erano altrettanto lieti di essersi emancipati dal nazionalsocialismo e di essere incoraggiati e adeguatamente finanziati per le loro ricerche. Ben presto le idee di Oberth e Von Braun si diffusero tra le riviste di fantascienza e diedero un forte impulso a nuovi racconti su come avrebbe dovuto svolgersi la conquista dello spazio. Se ne occuparono soprattutto Heinlein, Asimov e Murray Leinster.

A grandi linee, il progetto di Von Braun era il seguente. Prima di tutto occorreva costruire una nave spaziale in grado di decollare, volare e poi ritornare a terra senza perdere inutilmente parti lungo la strada: un po’ come lo space shuttle odierno, ma con propulsori più potenti. Poi occorreva mettere in orbita intorno alla Terra una stazione spaziale permanente, che doveva avere la forma di una ruota con un mozzo centrale, in modo che la rotazione creasse nella parte ad anello una sorta di gravità artificiale, grazie alla forza centrifuga. Per intenderci, Von Braun pensava a qualcosa di simile a ciò che si vede nei film come “2001 odissea nello spazio” o “Elysium”. Una seconda stazione spaziale avrebbe poi dovuto essere situata nei punti di Lagrange tra Terra e Luna. I punti di Lagrange sono una zona di stabilità gravitazionale tra due corpi celesti: questo avrebbe permesso alla stazione di rimanere ferma al suo posto senza spreco di carburante, a circa due terzi di distanza dalla Terra rispetto alla Luna. Per montare le stazioni spaziali, si sarebbero potuti usare dei razzi – cargo, da riutilizzare più volte. Da lì il balzo verso la Luna sarebbe stato più facile e avrebbe consentito di posare sul suolo lunare una stazione permanente, primo nucleo di una futura colonizzazione. L’idea generale era insomma quella di andare nello spazio e di restarci.

Le idee di Oberth e i progetti del suo allievo Von Braun influenzarono immediatamente gli scrittori americani di fantascienza, aiutandoli a definire meglio come sarebbe stato il futuro dell’umanità nello spazio. È per questo motivo che nelle copertine e nelle illustrazioni del dopoguerra gli astronauti indossano degli scafandri che li fanno assomigliare a tanti omini della Michelin, anziché tutine tanto attillate quanto improbabili. Nel suo romanzo “La tuta spaziale” (Have space suit: will travel, 1958) Heinlein descrisse una di queste tute in modo così preciso e credibile da far pensare che forse si poteva uscire e andarsene a comperare una. Per lo stesso motivo le astronavi disegnate dai più famosi illustratori dell’epoca (come Frank R. Paul, Virgil Finlay, Ed Emshwiller, Frank Kelly Freas, John Schoenherr) hanno spesso una forma che ricorda tanto un missile V2, mentre le stazioni spaziali hanno quasi sempre l’aspetto di una ruota di carro. Quando negli stessi anni a Hollywood si decise di produrre un nuovo film sul primo sbarco lunare, la regia fu affidata al famoso regista e mago degli effetti speciali George Pal, mentre parve naturale affidare a Robert Heinlein il soggetto e il romanzo che ne venne tratto, dal titolo “Destination Moon” (1950). Von Braun e il suo gruppo venero usati come consulenti. Il film “Destination Moon” fece epoca e influenzò l’immaginario collettivo. Al punto che il famoso disegnatore di fumetti franco-belga Hergé decise di prendere ispirazione dal film e spedire sulla Luna il suo eroe Tin Tin. Dai disegni di Hergé si vede chiaramente che le tute spaziali e l’astronave sono ispirate al film e al romanzo di Heinlein: gli scacchi bianchi e rossi che si vedono sugli alettoni, per inciso, sono gli stessi che portavano le V2.

Tutti questi bei progetti, ahimè, furono rapidamente spazzati via dal peggioramento dei rapporti tra Russi e Americani, con l’avvento della cosiddetta guerra fredda. Da progetto di colonizzazione dello spazio i programmi spaziali si trasformarono rapidamente in un potente veicolo di propaganda politica e, in subordine, in un progetto di supremazia militare. Provate a immaginare che cosa significava, dal punto di vista strategico, avere dei missili sospesi sopra la testa in una stazione orbitale o in una base lunare. Lo stesso Heinlein, da bravo ex-militare, scrisse diverse storie sull’argomento, come “La lunga veglia” (The long watch, 1949) e “Soluzione insoddisfacente” (Solution unsatisfactory, 1941). Il fatto è che, fino all’ultimo, i sovietici sembravano in netto vantaggio nella corsa allo spazio, rispetto agli americani. Era della URSS il primo satellite in orbita: lo Sputnik (e per gli americani più sciovinisti fu un vero shock). Sempre all’URSS  riuscì di metter in orbita il primo animale da esperimento (la cagnetta Laika), poi il primo astronauta (Yuri Gagarin), poi la prima donna astronauta (Valentina Tereskova). Teniamo presente che l’esercito americano allora non aveva donne in ruoli di spicco, meno che mai piloti di aereo o collaudatori di sesso femminile. Poi arrivò il primo rendez-vous fra due navicelle spaziali, la prima passeggiata nello spazio, la prima stazione orbitale. Niente da fare. Nonostante gli sforzi economici e di ricerca scientifica degli Stati Uniti, i Russi erano sempre uno o due passi avanti. Il fatto è che loro avevano uno scienziato e ingegnere con i controfiocchi, di nome Sergej Pavlovic Korolev, il più grande progettista spaziale di tutti i tempi. E non era uno scienziato nazista riciclato, ma era proprio russo. Era stato spedito in Siberia durante una delle tante purghe staliniane, ma era stato subito riabilitato e messo a capo dei progetti sovietici per lo spazio. E Korolev progettò un propulsore in grado di spingere in orbita un peso molto maggiore di quanto poteva fare il gruppo di Von Braun, dando al suo paese un vantaggio incolmabile. Rapidamente, gli americani si convinsero ad abbandonare i progetti a lungo termine di Von Braun e Oberth: eliminarono la possibilità di atterraggio sostituendolo con il meno problematico ammaraggio, ridussero di dimensioni le capsule spaziali, cancellarono l’idea della stazione permanente e puntarono tutto sull’arrivare primi alla Luna. Li aiutò il fatto che Korolev si ammalò e morì nel 1966, mentre lavorava al progetto del super-razzo che doveva mandare una Vostok sulla Luna. Nessuno era in grado di prendere il suo posto, il razzo aveva dei grossi problemi, i russi non avevano dei computer all’altezza dei tempi e il costo del progetto era eccessivo per la debole economia sovietica. Così gli americani restarono soli e poterono completare il loro progetto Apollo. Rispetto all’idea originale e alla interpretazione che ne aveva dato la fantascienza era un ripiego e, a lungo andare, anche uno spreco di denaro. Un tecnico della NASA commentò così i lanci dell’Apollo: “Dal punto di vista della efficienza, il progetto Apollo è stato come se Cristoforo Colombo, una volta giunto in America, avesse affondato le tre caravelle e fosse tornato in Spagna su una barchetta a remi”.

         Sulla corsa allo spazio USA-URSS gli autori di Science Fiction furono molto severi. Sembrava più logico che andare lassù dovesse servire a scopi pacifici e non militari. Così come appariva più sensato che i due grandi paesi collaborassero e mettessero insieme conoscenze e risorse economiche, visto il costo esorbitante dell’impresa. Ma non è stato così e oggi ne paghiamo le conseguenze, con un rallentamento delle missioni spaziali con equipaggio che assomiglia tanto a una rinuncia, nonostante le promesse della politica. Nel racconto “Progetto Zitti” (“Project Hush!” 1954) Wiliam Tenn racconta di una segretissima spedizione dell’Aviazione degli Stati Uniti sulla Luna. Una volta atterrati, gli astronauti scoprono che vi si è già insediata un’altra base. Gli odiatissimi Russi? Macché. La base appartiene alla Marina degli Sati Uniti, che aveva portato avanti in gran segreto un progetto del tutto simile al loro. Questo è un fatto storicamente provato: la NASA fu istituita proprio per evitare sovrapposizioni del genere. Invece in “Luna, luna di miele” (Honeymoon in Hell, 1950) Fredric Brown fa incontrare sulla Luna due astronauti naufraghi: un americano e una russa (N.B.: nessuno era ancora andato realmente nello spazio all’epoca e ben pochi credevano che in futuro ci sarebbero state donne pilota). I due vengono salvati da un gruppo di alieni, che da tempo occupano la Luna e osservano da lì la Terra. Essendoci poco spazio, i due dovrebbero convivere sotto la stessa cupola pressurizzata, ma questi alieni sono molto puritani e, secondo le loro usanze, spingono i due terrestri a sposarsi prima di metterli insieme. Nel racconto “Gli avvoltoi sensibili” (The gentle vultures, 1957) Isaac Asimov riferisce a sua volta di un astronauta abbandonato sulla Luna, poiché dalla Terra nessuno sembra in grado di recuperarlo. Infatti la guerra nucleare è sempre più probabile e tutto il mondo è impegnato nei preparativi. L’uomo però viene salvato da una razza aliena che si è insediata sulla Luna e da tempo sorveglia la Terra, senza interferire in alcun modo. Stanno aspettando che l’umanità si autodistrugga, prima di scendere sul pianeta e colonizzarlo. Essi si vantano del loro sistema etico di non-ingerenza, che corrisponde  in fondo a quella che sarà la Prima Direttiva nel ciclo cinematografico di Star Trek: non interferire con le civiltà in via di sviluppo. Ma in realtà si stanno comportando come animali divoratori di carogne. Avvoltoi, che ruotano sopra la preda in attesa che muoia.

         Lo sbarco sulla Luna nel 1969 provocò entusiasmo in quasi tutti gli scrittori di fantascienza, ma per favore non chiamatelo allunaggio. È un neologismo del cavolo e io vorrei che fosse cancellato dal vocabolario. Gli anglosassoni parlano di “landing” cioè toccare terra, ma con la iniziale minuscola: nel senso di suolo. Che faranno i giornalisti quando qualcuno atterrerà su Marte? Parleranno di ammartaggio? E poi magari di aggiovaggio e assaturnaggio? E quando andremo più lontano, si parlerà forse di applutonaggio? Tutti i grandi della science fiction americana, da Asimov a Heinlein proclamarono la loro felicità per quel risultato, a cui in certo modo avevano contribuito. Una delle poche voci discordanti fu quella di Michael Moorcock (che per la verità scrive più fantasy che fantascienza) il quale, leggendo la targa che gli astronauti hanno posato sulla Luna, fece un acidissimo commento. La targa recita così: “Siamo venuti in pace per conto di tutta l’umanità”. Lo scrittore commentò così: “se ci sono dei Seleniti, è meglio che comincino a correre”. Il più entusiasta fu invece Ray Bradbury, poetico cantore dello spazio e celebratore degli astronauti in racconti come “Lo spaziale” (Rocket man, 1951), “Icarus Montogolfier Wright” (1956) e “Caleidoscopio” (Kaleidoscope, 1949), che scrisse bellissime parole sull’argomento.

         Oggi tutto ciò sembra così lontano nel tempo. Torneremo nello spazio? Andremo mai su Marte e sugli altri pianeti? I costi si sono moltiplicati, i pericoli pure. Tuttavia qualche speranza c’è. Secondo l’astronauta italiana Samantha Cristoforetti, un consorzio tra l’ente spaziale americano NASA, quello europeo ESA e altri soggetti dovrebbe portare sulla Luna una nuova spedizione prima del 2025. La scoperta che esiste ghiaccio fossile nel sottosuolo lunare ha dato una spinta in quella direzione, così come l’affacciarsi sullo spazio di nuove nazioni con forte desiderio di espansione quali la Cina e l’India. Poi ci sono i privati, che incominciano a voler investire soldi nell’impresa. La fantascienza aveva ampiamente previsto anche questo: basta vedere racconti come “Per Howard Hughes, una modesta proposta” (For Howard Hughes, a modest proposal, 1974) di Joe Haldeman o il classico ”L’uomo che vendette la Luna” (The man who sold the Moon, 1950) del solito Robert Heinlein, il cui protagonista Delos D. Harriman anticipa in modo sorprendente la figura del miliardario Elon Musk, il creatore di Tesla, deciso ad andare nello spazio con un suo mezzo. Insomma gli scrittori di fantascienza ci credono ancora e continuano a spingere in quella direzione. Continuano a scrivere bellissimi racconti sul futuro dell’umanità nello spazio. E chissà che, com’è accaduto tante volte in passato, non abbiano ragione. Riflettiamo un momento su questa frase:

“ Terra - la culla dell'umanità, ma non si può vivere per sempre in questa culla.”

La scrisse all’inizio del secolo appena trascorso Konstantin E. Tsiolkovsky, un insegnante di matematica russo, ideatore della equazione di base per la propulsione a razzo (tuttora nota come l’equazione del razzo di Tsiolkovsky). Robert A. Heinlein, con tipico pragmatismo americano, l’ha modernizzata in questo modo:

“Abbiamo completamente consumato questo pianeta, è ora che usciamo là fuori a cercarcene un altro”

Franco Piccinini


Franco Piccinini (Asti, 1954), si è laureato a Pavia e fino a poco tempo fa ha esercitato la professione di medico. Grande esperto e cultore di fantascienza, ha pubblicato i romanzi "Ritorno a Liberia" (tratto dal suo primo racconto), "Il tempo è come un fiume", il saggio "Scienza medica e fantasie scientifiche" (finalista al Premio Italia 2012 e vincitore del Premio Vegetti 2018), oltre a vari articoli su Nova SF* e racconti su Futuro Europa. Di recente ha pubblicato il saggio "Mondi Sotterranei" per i 700 anni di Dante. Nel 2011 ha iniziato a collaborare con l'editore Solfanelli e con Delos Digital. E' un grande amico della Biblioteca Bonetta e ha precedentemente scritto per il nostro sito anche i seguenti contributi:

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