I due fratelli Singer e la cultura tradizionale dell’ebraismo centro-europeo


I due fratelli Singer sono tra i più grandi scrittori del Novecento. Più conosciuto è senz’altro il più giovane, Isaac Bashevis Singer (1903-1991), premio Nobel 1978, ma sulla scia del suo successo sono stati tradotti in italiano anche i libri del fratello maggiore, Israel Joshua Singer (1893-1944), anch’essi affascinanti. Entrambi narrano della civiltà tradizionale ebraica dell’Europa centro-orientale imperniata sullo shtetl, il tipico villaggio ebraico in cui si parlava lo yiddish (una lingua di derivazione germanica, con apporti slavi, neolatini ed ebraici, scritta in caratteri ebraici): un mondo costruito nel corso di secoli e distrutto interamente, nel giro di pochi anni, dalla barbarie nazista. Già solo per questo i loro libri sarebbero meritevoli di essere conosciuti: ma, al di là del valore documentario o di testimonianza storica, ciò che affascina il lettore contemporaneo è l’arte del racconto, che i due fratelli posseggono in misura eccellente. Eppure molto diversa è la rappresentazione del loro mondo d’origine. Per capire le differenze fra di loro possiamo riferirci alla personalità dei genitori: la madre, logica, acuta, realista, concreta e incline al pessimismo, era figlia di un celebre rabbino che apparteneva alla corrente, che potremmo definire di ortodossia razionalista, dei misnagdim, gli oppositori della diffusione, tra il XVIII e nel XIX secolo, del hassidismo, la variante ‘entusiasta’ e intrisa di pensiero magico dell’ebraismo continentale, su cui il grande filosofo Martin Buber ha scritto un libro meraviglioso, I racconti dei hassidim. Il nonno materno “teneva in massimo conto l’erudizione e non poteva sopportare i hassidim, con i loro rabbini miracolosi, che invece di studiare il Talmud passavano il tempo misticamente rapiti in danze e canti o a raccontare i prodigi dei rispettivi maestri”. Il padre invece era un uomo mite, ingenuo, pio, inetto nella vita pratica e vicino al mondo dei hassidim. Israel, che aveva le caratteristiche psicologiche della madre, ne dà un ritratto abbastanza duro: “Mio padre era un visionario, un uomo che rifuggiva ogni responsabilità. La sua filosofia di vita si poteva riassumere così: con l’aiuto di Dio andrà tutto bene. Benché durante il periodo trascorso a casa del suocero fosse diventato padre di due figli, senza contare un terzo morto precocemente, si era rifiutato di aprire il libro di russo [la conoscenza del russo gli avrebbe permesso un riconoscimento istituzionale del suo ruolo di rabbino], che ai suoi occhi era un oggetto impuro, un abominio. Gli bastavano i suoi hassidim, il suo Rebbe [maestro hassidico] e un po’ di studio. Nel tempo libero scriveva argomentazioni talmudiche e commentari alla Torah. Il nonno non aveva alcuna stima né delle sue argomentazioni, né dei suoi commentari di sapore hassidico, né tantomeno del suo Rebbe e del modo in cui celebrava le festività. Dopo lunghe discussioni riuscì a ottenere da mio padre che andasse a Zamość a studiare il russo da un insegnante di fama, specialista nel preparare futuri rabbini all’esame di Stato. Ma dopo poche settimane mio padre abbandonò il maestro insieme ai soldi che il nonno aveva pagato in anticipo e se ne tornò dai suoi genitori a Tomaszów, timoroso di presentarsi al cospetto del severo suocero che pretendeva risultati concreti. Per tutta giustificazione del suo comportamento, addusse una diceria sentita in città, secondo la quale la moglie dell’insegnante di russo non portava la parrucca ma se ne andava in giro mostrando i capelli” (1), il massimo della spudoratezza per un’ebrea.

Isaac invece, pur consapevole dei limiti culturali del padre, ne propone un ritratto di taglio diverso: egli sottolinea il carattere mistico della religiosità paterna, regolata puntigliosamente secondo le norme della Torah (una parola che i cristiani traducono con Legge, mentre gli ebrei preferiscono renderla con istruzione, dottrina o insegnamento). La bontà paterna, la sua cristallina onestà, nascevano dal richiamo costante a Dio come a un padre, o meglio un papà. (Tra l’altro è molto significativa una caratteristica, in questo rapporto filiale con il padre-Dio, che già lo psicoanalista Fromm aveva segnalato: ovvero il fatto che, essendo la paternità di Dio verso l’ebreo il frutto di un patto, era possibile talvolta una qualche forme di pia ribellione quando Dio non stava ai patti: “Certo, uno non può fare la guerra all’Onnipotente, e questo rebbe [un rabbino che si era trasferito in America, dove non rispettava più le leggi delle purità rituale] non si stava comportando come di deve. Non di meno a volte bisogna rivolgersi a Dio con una parola aspra. Non deve pensare di poter fare quello che vuole Lui con gli ebrei. Se vuole gli ebrei, deve dargli di che vivere. Se desidera Torah e yiddishkeit [ebraismo], deve fare in modo che vengano tenute in grande considerazione”) (2).

Isaac aveva nostalgia di Dio e il padre era il modello di un uomo invaso da Dio, un mistico: e Isaac sapeva che un mistico non può che apparire inetto o ingenuo per coloro che non condividano il suo approccio fondamentale all’esistenza. Eppure anche per Isaac, come per Israel, la cultura in cui il padre era vissuto risaliva a un mondo perduto e, nella sua esteriorità letterale, irrecuperabile. I due fratelli erano intellettuali moderni, e quindi nessuno dei due poteva accettare la fede integralistica dei genitori, totalmente aliena rispetto alla modernità, alla scienza, alla tecnica, ai nuovi diritti umani. Ma la loro reazione di fronte al mondo da cui entrambi provenivano è ben diversa. Nella produzione letteraria di Isaac possiamo distinguere due tipologie di racconti o romanzi, a seconda che riguardino il mondo dell’ebraismo europeo o il mondo dell’esilio americano. Nella prima prevale una empatia fondamentale verso quella cultura tradizionale, nonostante tutte le differenze: per così dire, c’è una sorta di nostalgia verso la presenza del divino che, nel mondo chiuso dell’ebraismo est-europeo prima della shoah, plasmava e illuminava tutte quelle persone così diverse l’una dall’altra. Nascono da questa intuizione del mondo capolavori assoluti della letteratura del Novecento, come per esempio i racconti Gimpel l’idiota o Lo Spinoza di via del mercato. Nei testi ambientati nell’ebraismo statunitense (a mio parere meno geniali dei primi) prevarranno i temi della perdita, dello smarrimento, dello spaesamento, della sensualità inquieta, dell’invocazione a una misteriosa e sconosciuta realtà trascendente. Il giudizio entusiasta di Henry Miller si riferisce ai racconti ambientati nostalgicamente nel mondo dello shtetl: “Che mondo meraviglioso, un mondo terribile e splendido, quello di Isaac Bashevis Singer, Dio lo benedica! Non si sa bene da dove cominciare, non si sa se cantare, danzare o gridare.” Perché quello di Isaac Singer è un mondo magico e insieme realissimo, concretissimo, un mondo di amori e di passioni, un mondo che anela a Dio e in cui è avvertibile la presenza del dybbuk (lo spirito maligno in grado di possedere gli esseri viventi: non a caso il primo libro di Isaac si intitolava Satana a Goray), un mondo pervaso dalla ‘gioia della Torah’ (una delle feste ebraiche) e insieme dalle grandi domande e dalle passioni eterne degli esseri umani. Era il mondo del miracolo quotidiano (3). Isaac, che rievoca potentemente questo mondo ed è capace di rendercene il fascino, ne è necessariamente lontano. La sua posizione dunque è profondamente ambivalente. La potremmo designare così: empatia emotiva, distacco intellettuale.

Ben diverso è l’atteggiamento di Israel. Di questo mondo magico e religioso egli non ha alcuna nostalgia. Lo guarda da fuori. La sua è una estraneità irrimediabile, l’estraneità dell’uomo moderno che non può più accettare in alcun modo il letteralismo religioso, che gli appare fanatico e chiuso nella sua pretesa di essere assoluto e onnicomprensivo. Molti giovani ebrei all’inizio del Novecento condivisero questo ripudio della tradizione e rifusero l’energia escatologica e apocalittica dell’ebraismo nel marxismo, con esiti che oggi possiamo riconoscere tragicamente contrari rispetto alle nobilissime intenzioni di emancipazione universale. Altri aderirono al sionismo. Altri ancora, come Israel, assunsero una posizione problematica e inquieta, che potremmo definire come una forma di ebraismo laico, di realismo illuminista: a una compiuta estraneità rispetto al mondo della tradizione, che pure viene descritto minuziosamente, corrisponde la lucida rappresentazione dei tentativi di trovare un compromesso tra l’ebraismo tradizionale e la modernità. Lo slogan del movimento di riforma dell’ebraismo, l’haskalah, sorto in Germania nella seconda metà del XVIII secolo (ne fu promotore un genio, Moses Mendelsshon, nonno di un altro genio, Felix Mendelssohn-Bartholdy) avrebbe potuto essere descritto così: cittadino nel mondo, ebreo a casa propria. Purtroppo la diffusione dell’antisemitismo sconvolse questa prospettiva, di pacifica integrazione dell’ebraismo nella modernità. Il motto sopra citato si rovesciò nell’opposto: cittadino a casa propria, ebreo nel mondo. Un grande romanzo di Israel Singer, La famiglia Karnowski, ambientato in Germania tra fine Ottocento e inizio del Novecento, descrive in modo archetipico, tramite le vicende di più generazioni di una famiglia ebraica, questo tentativo di compromesso tra l’eredità ebraica tradizionale e la civiltà moderna: esso culmina alla fine, dopo l’infrazione del tabù delle endogamia (cioè dopo il matrimonio di uno dei protagonisti con una donna non ebrea), in un esito tragico. Non c’è posto per Dio nei romanzi di Israel, a differenza che in quelli di Isaac. Forse si potrebbe dire che per Israel è la vita che prende il posto di Dio, o del rimando a un Dio lontano o perduto o assente. Se Isaac è un mistico mancato, Israel è un tardo illuminista – ma senza le illusioni dell’illuminismo settecentesco, perché egli è consapevole delle difficoltà (insuperabili nella Germania nazista) di un’integrazione tra ebraismo e modernità. Eppure, che potenza anche nel suo sguardo, che talento narrativo, che capacità di far emergere il dettaglio significativo, di dar vita a personaggi di carne e sangue! Un solo esempio per indicare la visione del mondo di Israel, e soprattutto la sua forza di scrittore: uno dei tanti che il lettore troverà in "La pecora nera", questo libro minuscolo di mole, ma ricchissimo di sfaccettature.

Reb Moshe Makover era un uomo anziano perennemente impegnato a masticare la propria barba candida. Non riusciva a lasciarla in pace, la divorava con sfrenato appetito, spargendo i peli staccati tra le pagine dei libri santi. La sua barba ovviamente aveva un aspetto spennacchiato e rado come un campo di segale dopo la mietitura. La gente gli guardava il mento stupita [perché era proibito per gli ebrei tagliarsi la barba], ma reb Moshe fugava sul nascere ogni sospetto.

«Non l’ho rasata, Dio ne guardi, l’ho solo un po’ mordicchiata», si affrettava a precisare.

I veri guai cominciavano il sabato. Ogni volta, in forza dell’abitudine, si acciuffava la barba pronto a farne scempio, e ogni volta si ricordava che di shabbat era proibito, e furibondo la lasciava andare.

Era un uomo pieno d’energia che faceva ogni cosa con slancio impetuoso. Pregava con grande clamore, fumava la pipa aspirando rumorosamente e soffiando grandi sbuffi di fumo acre negli occhi dei presenti. La sua voce roboante assordava gli alunni e lui stesso. Ardeva di sacro fuoco quando ci teneva lezioni di morale. Di quest’ultima aveva un’altissima opinione, e ce ne rifilava massicce quantità. Le sue conoscenze in fatto d’inferno superavano perfino quelle esposte nella Verga del castigo. Dell’inferno conosceva ogni cantuccio, come se ci fosse nato e cresciuto.

«Statemi bene a sentire, cuori ottusi, sprezzanti ribelli!» gridava, agitando la pipa fumante. «Non crediate che il mondo sia affidato al caso e l’uomo possa andare in giro a compiere nefandezze e nequizie, perché l’inferno è spaventoso e grida: ‘Dagli, dagli ai malvagi che spregiano Dio e i suoi precetti!’. E gli angeli distruttori dai mille occhi, che vedono e sentono tutto, stanno all’erta, sempre pronti ad agguantare per tempo gli scellerati e scagliarli nelle fauci dell’inferno, che ha un’ampiezza di quattrocento miglia per quattrocento miglia. Riflettete, dunque, masnada di peccatori!»”.

La masnada di peccatori, bambini tra i sette e i dieci anni, approfittava del fatto che il maestro fosse così preso dall’inferno per giocare di nascosto a carte. La posta consisteva in bottoni trovati per strada o staccati da pantaloni e soprabiti. Un bottone da militare, un moniak, valeva una dozzina di quelli comuni.

«Trentun punti!» si sentì sussurrare proprio nel bel mezzo di una tirata sull’angelo Duma, che brandiva una verga fiammeggiante presso la tomba di un uomo appena sepolto gridando: «Scellerato, qual è il tuo nome?»

P.S. Mi sono chiesto più volte perché la traduttrice, la bravissima Anna Linda Callow, o l’editore, non abbiano mantenuto il titolo originale yiddish che, tradotto letteralmente, suona “Da/Di un mondo che non c’è più”: titolo bellissimo e del tutto pertinente. Mi ha chiarito il mistero un mio caro amico: si è ricorsi all’espediente di una traduzione non letterale del titolo (La pecora nera) per differenziare questa versione da un’altra di poco precedente, in cui il titolo veniva reso così: Di un mondo che non c’è più, traduzione di Marina Morpurgo, Bollati Boringhieri, Torino 2015. Un’altra versione, comparsa nel 2016 a cura di Bianca Francese e David Sacerdoti, Newton Compton, Roma, è invece intitolata Da un mondo che non c’è più.

Walter Minella


1- Israel .J. Singer, La pecora nera, traduzione di Anna Linda Callow, Adelphi, Milano 2022, pp. 16-17.

2- Isaac B. Singer, Nuove storie dalla corte di mio padre, traduzione di Mario Biondi, Longanesi, Milano 2001.

3- Cfr. Isaac B. Singer, Vecchio amore, tr. it. di Mario Bioni, Longanesi, Milano 1980.


[Israel Joshua SINGER, La pecora nera, Adelphi, traduzione di Anna Linda Callow, Adelphi, Milano 2022]


Walter Minella - l'autore di questa recensione - ha diretto la rivista "Ulisse" e attualmente è il curatore della rubrica di recensioni della Biblioteca Bonetta di Pavia.

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