Una vita vissuta intensamente


I due libri di Mario Chinello, Ciò che non ho voluto (EOS, Romentino, No) e Rosso di sera (pubblicato dall’autore) costituiscono la prima e la seconda parte di un’autobiografia colorita, ricca di spunti, vivace e che può attrarre l’attenzione  di un pubblico differenziato. Anzitutto dei  compaesani dell’autore, gli amici, i conoscenti che ricorderanno molte delle vicende e delle persone descritte nei due libri. Ma, a mio parere, molto al di là di questa cerchia ristretta va l’interesse di questa memoria-testimonianza, che costituisce, dal punto di vista di un singolo, un vivido spaccato della storia generale che ha coinvolto il popolo italiano nel passaggio dal secondo dopoguerra ad oggi - tra politica, ideologia, religione, vita quotidiana, difficoltà economiche e sociali, confronto tra subculture regionali. In questo senso questi due libri, proprio per la loro particolarità individuale, costituiscono un’utile integrazione rispetto ai corsi di storia che si tengono nelle scuole italiane: e sarebbe auspicabile che l’autore venisse invitato da docenti di storia sensibili e preparati a  esporre ai giovani le sue esperienze, che sicuramente lasceranno a bocca aperta i ragazzi (che per es. non sanno cosa sia la fame, che per molti italiani vissuti durante la seconda guerra mondiale era un’esperienza ben nota).  L’autore, nato nel 1942 in Veneto ed approdato all’età di 10 anni in Piemonte, non andò al di là della quinta elementare: purtroppo i genitori, descritti come generalmente affettuosi e intelligenti, compirono il loro più grave errore educativo non accettando la proposta della maestra, che aveva riconosciuto la viva intelligenza del bambino e che insisteva perché lo facessero studiare. Mario fu così avviato precocemente al lavoro, passando attraverso varie tappe e diverse specializzazioni, con una passione per il lavoro ben fatto  che ricorda l’atteggiamento dell’operaio Faussone nella Chiave a stella di Primo Levi.  In seguito si metterà in proprio con un socio, diventando artigiano: la sua è, per così dire, una storia di successo professionale e di ascesa sociale  che non è stata rara in questa zona d’Italia, tra Piemonte e Lombardia, nella seconda metà del Novecento. Questi aspetti, che per una persona comune sarebbero più che sufficienti a riempire una vita, non lo sono certo nel caso di una personalità come quella di Mario Chinello, che si può senz’altro definire straordinaria: Chinello è stato, sin da  giovane,  militante politico del PCI, attivo nelle lotte sindacali, sindaco per 10 anni di Borgo Ticino (un paese in provincia di Novara, dalle parti del Lago Maggiore), poi è rimasto impegnato, in vario modo, nel volontariato sociale. 

Per dare al lettore un’idea della vivacità del libro, citerò alcuni passi particolarmente curiosi e interessanti. Siamo nell’aprile del 1948, in Veneto, alle elezioni che videro la vittoria della Democrazia cristiana con i suoi alleati sul Fronte Popolare, costituito dal Partito comunista e dal Partito socialista. “La nonna e la nuora Maria si misero alla testa di un nutrito numero di donne; salirono su un carro di quelli piatti, trainato da due buoi, fissarono quattro bandiere rosse del PCI agli angoli del medesimo e cantando a squarciagola ‘Bandiera Rossa’ e ‘L’inno dei lavoratori’, si avviarono verso il seggio a loro destinato e collocato nella scuola del mio paese. Già che c’erano, senza alcuna autorizzazione e al di fuori di ogni regola sui comizi o sulle manifestazioni elettorali, percorsero avanti e indietro tutta la via principale, sotto lo sguardo attonito dei democristiani e dei destrorsi, con il gaudio di tutta la sinistra e di noi ragazzini che cantavamo insieme a loro. Arrivate al seggio, scesero dal carro con le bandiere e, senza trovare alcuna resistenza, entrarono per votare. Si fecero consegnare la scheda e, a turno, ognuna votò di fronte a tutti. Dopo averla fatta svolazzare sotto gli occhi dei presenti, la piegarono diligentemente e la infilarono nell’urna”. 1

Ma questa scena insieme di entusiasmo politico e di ‘democrazia popolare’ (così erano chiamati i regimi comunisti dell’Europa centro-orientale) non valeva per tutte le donne: “Nelle stesse ore in cui la nonna Pasqua faceva la rivoluzionaria ai seggi elettorali, la nonna Pina era invece chiusa in camera […] Il nonno l’aveva chiusa in camera e ci rimase fino alla fine delle votazioni. Posso dire di avere sentito la nonna invocare il marito affinché la lasciasse uscire: ‘Carlo làsseme andare a votare che votarò per ti’ [Carlo lasciami andare a votare che voterò per te]  e lui di rimando: ‘Tasi che te sì imbriàga de incenso e te voti per chei sachi de carbon’ [Taci che sei ubriaca di incenso e voti per quei sacchi di carbone]: naturalmente per lui i sacchi di carbone erano i preti, che allora erano sempre rigorosamente vestiti con l’abito talare lungo e nero”. 2

Commenta l’autore, pensando certamente al raccapriccio di una donna e di un uomo moderni, alla lettura di queste righe:  “Il fatto sorprendente era che poi la nonna si comportò come sempre, quasi non fosse accaduto nulla, e la vita tra i due proseguì con lo stesso ‘tran tran’ di tutti i giorni. In fondo, era una brava e devota moglie.” 3

A proposito dei pregiudizi interregionali, espressi nella forma più grossolana dagli ultimi del paese verso gli immigrati da un’altra regione d’Italia: “ Al Petu da Gagnag era un soggetto molto simili ai due [‘barboni’  nominati prima] … So, per esperienza personale, che era un vero razzista, e non verso gli extracomunitari che, allora, qui non c’erano. Nel suo stretto dialetto locale, con la lingua impastata e biascicante, diceva a noi veneti: ‘Crepa beshcia tant ta se mia di nòst istess’ (Crepa bestia tanto non sei dei nostri lo stesso)”. 4 Certo, si trattava di un poveretto, alcolizzato, senza una famiglia di supporto: per questo esprimeva in una forma particolarmente primitiva un pregiudizio che allora (anni Cinquanta) era latente nelle zone del Lago Maggiore contro i veneti, poi nei decenni successivi si sarebbe volto contro i meridionali e infine, oggi, si indirizza contro gli immigrati africani: un rifiuto xenofobo, o apertamente razzista, di cui ritrovammo le tracce negli anni ‘90 del Novecento  tra gli studenti (soprattutto maschi) della Lombardia nei confronti dei meridionali,  in un’indagine promossa dalla rivista Ulisse in collaborazione con il Dipartimento di sociologia dell’Università di Pavia – un rifiuto che oggi è legittimato da veri e propri imprenditori politici e che, qualche volta, è sostenuto non da alcolizzati analfabeti, ma anche da alcuni che erano stati a suo tempo vittime dei pregiudizio.  

Il ritorno in Veneto da adolescente, dopo un epico viaggio notturno in bicicletta, dalle zone del Lago Maggiore: “Dopo la sbornia di saluti e di pacche sulla spalle, la mattina del mio risveglio in terra veneziana la dedicai a fare visita a quei pochi amici che ancora erano rimasti ancorati al paese. Ci scambiammo le nostre impressioni e capii che il loro mondo non era più il mio. Io ero ormai proiettato nel campo del lavoro e mi sentivo aperto alle domande provenienti da una nuova generazione che cresceva in fretta, mentre loro erano ancora lì fermi alle convenzioni e alle consuetudini dalle quali avrebbero preso le distanze solo una decina d’anni dopo. Niente di eccezionale; a me sembrava normale vivere la vita in modo aperto, senza quei dinieghi di stampo catto-contadino, propri di una cultura che ormai giudicavo sorpassata e atavica. Quelle domande nascevano dall’acquisita indipendenza lavorativa e dal clima famigliare che mi ha sempre favorito nel trovare il modo di esprimere le potenzialità di cui disponevo, con un solo neo: non aver proseguito le scuole dopo le elementari. Mi accorsi che parlavamo due linguaggi diversi e che le mie esperienze in terra piemontese mi avevano cambiato parecchio. Rilevai le nostre  differenze e mi accorsi di essere diventato più maturo di loro”. 5

Esempi tratti dall’esperienza amministrativa: la costruzione delle scuole e dell’asilo nido.“Acquisimmo le aree per costruire le scuole medie, che essendo un’area posta necessariamente in centro paese, ci costarono defatiganti battaglie contro uno dei proprietari. La stessa cosa accadde per la costruzione dell’asilo nido, contrastato soprattutto dalla parte politica avversa, perché? Sentite, sentite: ‘I piccoli sotto i tre anni devono stare in casa curati dalle loro madri e non messi in mano a delle estranee’. In realtà, le contestazioni erano mosse da persone molto vicine alla Chiesa, il loro obiettivo era di contrastare un’educazione laica, secondo loro dannosa per la futura crescita del bambino. Su questo punto, ricordo discussioni pubbliche così sentite e partecipate che adesso mi fanno dire quanto quelle critiche fossero di stampo manicheo, inutili e ingiuste nei nostri confronti”. 6

L’approvazione del piano regolatore comunale e la gustosa scenetta dell’“oligopolio collusivo”: “Assieme all’Architetto Aldo Vecchi, smontammo tutte le loro affermazioni sull’inutilità di dare uno strumento urbanistico serio al nostro Comune, già in parte compromesso dal punto di vista edilizio. Passammo a elencare i vantaggi che ne sarebbero venuti a tutta la popolazione grazie alla programmazione sull’utilizzo del suolo, sulle risorse che sarebbero state introitate dal Comune sotto forma di oneri di urbanizzazione primari e secondari, con i quali si sarebbero potute realizzare le infrastrutture comunali e i servizi di cui il nostro Comune necessitava da sempre. 

L’Arch. Vecchi, abituato a gestire le sessantottesche assemblee universitarie, arringò più volte la gente in platea e accusò quei figuri di aver pianificato e ordito un ‘oligopolio collusivo’; a quell’affermazione tutti si zittirono e cadde il silenzio. Vai a capire cosa voleva dire con quella frase lì; non senza un certo imbarazzo, presi il microfono in mano e dissi che era un’azione concertata tra di loro, solo per gettare discredito su di noi …”. 

Si potrebbe continuare a lungo. Voglio solo fare due riflessioni a margine del testo. Mi sono chiesto: che cosa voleva dire il ‘comunismo’ per il militante Mario Chinello? E mi sono risposto: era una rivendicazione di giustizia sociale, una scelta (vedi il caso degli asili nido o del piano regolatore) di apertura a una modernità capace di coinvolgere le classi subalterne, dunque aveva poco o nulla a che fare con gli sciagurati regimi dell’Europa centro-orientale, che sono stati spazzati via dalla storia dopo il 1989. Potremmo dire che era una scelta riformista, da socialdemocrazia europea: eppure, per le particolarità della storia italiana, questa scelta socialista e democratica insieme conviveva con la fedeltà a un modello comunista di società, conservata per decenni anche se nel corso degli anni sempre più tenue (si ricordi lo ‘strappo’ da Mosca dell’allora segretario del PCI, Enrico  Berlinguer, tra gli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta del Novecento). Questa ambiguità del PCI sarebbe rimasta fino alla fine e sarebbe stata sciolta soltanto dopo il crollo dei regimi comunisti. Detto questo, attribuito il dovuto riconoscimento ai comunisti che militarono nella Resistenza e diedero un importante contributo alla nascita della nostra Repubblica democratica e antifascista, credo che oggi, con il senno di poi, si debba riconoscere che, nel confronto del 1948 tra due modelli di civiltà, rappresentati rispettivamente da De Gasperi e da Togliatti, la scelta giusta era quella antitotalitaria, democratica e cristiana di De Gasperi. Non so se Chinello sarebbe d’accordo con questa tesi: purtroppo, la categoria di totalitarismo ha impiegato decenni prima di essere riconosciuta come valida dall’intellettualità italiana, e quindi sarebbe assurdo rimproverare a Mario Chinello di non averla fatta propria.  

L’altra riflessione riguarda il cristianesimo. Il confronto, e qualche volta uno scontro che non esula mai dai limiti della civiltà (ricordate Peppone e don Camillo?) con le istituzioni locali della Chiesa cattolica fa parte della formazione e dello sviluppo della personalità culturale e politica di Chinello, come di molti altri italiani del tempo. Il divario comincia a chiudersi, un effettivo dialogo si apre nel 1986, quando due preti straordinari – don Ernesto Bozzini e don Mario Bandera - già missionari in Uruguay, sono inviati nella parrocchia di Borgo Ticino a sostituire il parroco morto prematuramente. L’incontro avviene alla festa dell’Unità, dove i due stavano cenando - “certamente non un fatto usuale; mai, prima di allora, un prete era venuto alla nostra festa e quella sera ne arrivarono addirittura due!” Questi due preti erano stati, evidentemente, influenzati dalla teologia della liberazione – o almeno dalla teologia del popolo – che sosteneva la scelta preferenziale dei poveri  ed era lontanissima dalla linea prevalente nella  Chiesa italiana di allora. Con loro Chinello ebbe un rapporto amichevole, un vero incontro. 

In conclusione: si tratta di due libri affascinanti, che si leggono con piacere perché sono scritti in modo vivace e scorrevole e sono insieme la descrizione di una civiltà in larga misura tramontata e la testimonianza di un impegno, di una passione, politica nel senso più alto del termine, che vale ancora oggi,  e forse oggi più di prima.  

P.S. Chi fosse interessato ad acquistare i due libri può mettersi in contatto con il cellulare dell’autore (che naturalmente mi autorizza a divulgare il suo numero): 349.551.6678

w.m.


1- Mario Chinello, Ciò che non ho voluto, p. 82.

2- Mario Chinello, op.cit., p. 83.

3- Op. cit., pp. 83-84.

4- Op. cit., p. 166.

5- Op. Cit., p. 271.

6- Mario Chinello, Rosso di sera, p. 125.


[Mario Chinello, Rosso di sera, 2021, pp. 236, acquistabile al link <https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/biografia/593020/rosso-di-sera-4/>]


Walter Minella - l'autore di questa recensione - ha diretto la rivista "Ulisse" e attualmente è il curatore della rubrica di recensioni della Biblioteca Bonetta di Pavia.

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