Perché la violenza non è mai santa: un dotto libro del Cardinal Ravasi


A cura di Gianfranco Poma e Walter Minella

Oggi per un cristiano l’espressione “santa violenza” è, o dovrebbe essere, logicamente un ossimoro (quella figura retorica in cui si congiungono due caratteristiche incompatibili, per esempio un cerchio quadrato), religiosamente una bestemmia. Non è sempre stato così, e purtroppo ancor oggi non è sempre  così.  In un breve e denso saggio, La santa violenza, il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura,  affronta la spinosa questione con finezza ermeneutica, sorretta da  una straordinaria erudizione e dalla capacità di esporre questioni difficili in modo chiaro. Egli si concentra, in un primo quadro ‘centrale e basilare’,  sul problema della ‘santa violenza’ nel Primo Testamento (Le guerre di Dio). Affronta poi  il problema del fondamentalismo cristiano (con una nota a margine relativa a quello islamico) in un secondo quadro  che ha un titolo molto significativo e a nostro parere assolutamente centrato: La lettera che uccide. Infine  esamina la questione dello straniero e dell’ospitalità nella Bibbia ebraica (La Bibbia di fronte allo straniero). In appendice a  questo trittico teologico troviamo un Piccolo lessico tematico in cui vengono analizzate una serie di parole-chiave della cultura ebraico-cristiana, rilevandone tanto le permanenze di significato  quanto gli slittamenti semantici nel passaggio dall’ebraismo al cristianesimo (Circoncisione, Ermeneutica, Giorno del Signore, Giudizio di Dio, Idolatria, Ospitalità, Pace, Persecuzione, Politica, Popolo). Non è naturalmente possibile dare conto  delle sfumature della riflessione di Ravasi. Si possono tuttavia individuare alcuni nodi concettuali. Cominciamo  con il primo capitolo, che dà il titolo all’intero  libro, sulla violenza nella  Bibbia ebraica, letta con tutta la simpatia che non solo un raffinato ebraista come Ravasi ma ogni cristiano, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, deve riservare ai nostri ‘fratelli maggiori’. E tuttavia, o forse proprio per questo,  non può mancare il riconoscimento della pervasività della violenza nel Primo Testamento. ”Una lingua lessicalmente povera come l’ebraico classico (5.750 vocaboli in tutto) si mostra sorprendentemente  ricca quando deve designare la violenza” (9-10). “In un libro del 1978 Raymund Schwager osservava che nell’Antico Testamento ‘nessun’altra attività o esperienza umana è menzionata così spesso come la violenza, più del lavoro, dell’economia, della famiglia, della sessualità, della natura, della scienza’” (p. 24). Il culmine di questa concezione della violenza giusta consiste nell’esaltazione della pratica barbarica del ḩerem, che, secondo la definizione del Dizionario di ebraico biblico di Luis Alonso Schӧkel, il maestro di Ravasi, trapassa dal primario significato di  “a) Consacrare, dedicare (mettere da parte, cfr harem, uno spazio separato)” al secondo significato, che è fondamentale, di “b) Consacrare allo sterminio. Riunisce i semi di consacrazione a Dio e di distruzione che non permette all’uomo di servirsene”. Dunque, secondo la concezione del ḩerem assassinare tutti gli  uomini, le donne, i bambini, gli animali di un popolo nemico sarebbe stato un comandamento divino. Guai a chi contravveniva: Saul, per esempio, venne privato da Samuele  dell’unzione sacra a re di Israele per non aver ammazzato il re degli Amaleciti e tutti gli animali migliori del popolo vinto (I Samuele, 15). Correlata a questa cupa e feroce visione della storia era una visione altrettanto cupa di Dio come un duro patriarca, iracondo e geloso. Questa naturalmente non era l’unica immagine di Dio,  ma era compresente con altri tratti (il Dio pietoso e misericordioso) che verranno privilegiati in seguito: “accanto all’ ḩerem … si trovano espressioni di compassione, di amore e di apertura nei confronti dello straniero, fino a far balenare un certo universalismo e a raggiungere un ideale di tolleranza” (p.41). L’interpretazione di Ravasi dei passi violenti è ben attenta a evitare un duplice errore: “da un lato, la Scilla dell’allegoria per cui i passi “scandalosi” della Bibbia nell’ambito bellico, esclusivista, violento vengono trasfigurati in metafore spirituali inoffensive. D’altro lato, la Cariddi del letteralismo che giustifica il ricorso alla violenza a tutela di ideali sacrali ancorandosi proprio alle pagine offensive e difensive delle Scritture” (p.17).  Invece, egli punta su quella che, in termini filosofici, potremmo definire la dialettica tra la trascendenza e la storicità. “La via maestra per comprendere simili testi marziali e violenti è quella di tenere presente la qualità strutturale ed essenziale della rivelazione biblica: essa è per eccellenza storica, cioè innestata nella trama faticosa e tormentata della vicenda umana … Quella divina non è una parola sospesa nei cieli e comunicabile solo estaticamente, ma è concepita come un germe che si apre la strada sotto il terreno sordo e opaco dell’esistenza terrena. La Bibbia si autopone come storia progressiva del senso della  nostra storia apparentemente insensata o per lo meno convulsa e confusa” (pp. 40-41). E dunque,  “in questa economia generale della Scrittura, secondo l’ermeneutica teologica postulata dalla Bibbia stessa, le pagine violente sono la rappresentazione di un Dio paziente che, adattandosi e sopportando la brutalità e il limite  dell’uomo, cerca di condurlo verso un altro orizzonte”.  Si potrebbe dire che l’interpretazione di Ravasi  si rifaccia a un celebre detto dalla Summa Theologiae di san Tommaso: quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur (qualunque cosa venga ricevuta viene ricevuta secondo la capacità di colui che la riceve). Evidentemente l’ebraismo  di circa 3.000 circa fa risentiva di un primitivismo violento, tipico dell’area culturale in cui sorgeva. Da qui, e non da Dio, nascono gli appelli alla violenza religiosa. Il fondamentalismo, nato nel mondo protestante nel XX secolo e oggi largamente diffuso anche in altre religioni, propone un recupero letterale, se non di tutte,  della maggior parte di queste proposizioni violente.   Non è certo questa la via di Ravasi, che mostra, nel secondo capitolo, tutta la pochezza intellettuale di questo atteggiamento letteralistico,  insieme al pericolo per la nostra comune civiltà umana. Ma neanche è accettabile un’elusione della questione. La storicità (l’incarnazione) non è un elemento secondario e subordinato della Bibbia, ebraica e cristiana (questo è ciò che dimenticano i tradizionalisti più ottusi).  La Bibbia non è parola di Dio nel senso del Corano, cioè un archetipo increato  che sarebbe stato trasmesso, nella sua immutabile purezza, dall’arcangelo Gabriele al profeta Muḩammad (Maometto). E infatti il salmo 62 (61) dice: “Una parola ha detto Dio/ due ne ho udite”. Esiste una dialettica costitutiva tra la trascendenza del messaggio e l’immanenza  della storicità concreta degli esseri umani in cui esso si cala: una dialettica che comprende dunque anche fraintendimenti, limitazioni, particolarismi, reinterpretazioni. Perciò, esplicitiamo noi,  talune affermazioni della Bibbia vanno recepite in toto, altre reinterpretate, alcune infine semplicemente scartate – cercando però di comprenderne il senso. “Queste pagine violente non devono essere assunte semplicisticamente col loro rivestimento simbolico, ma devono essere ‘demitizzate’ per isolare anche alcuni valori ritenuti capitali da Israele ed espressi per via traversa. Pensiamo, per esempio, alla costante premura di salvaguardare la purezza della fede e della propria identità religiosa”. (p.42) Alla luce di questo duplice principio metodico (trascendenza + storicità) si può comprendere l’evoluzione dell’interpretazione del messaggio di Dio, e della stessa figura di Dio,  all’interno della Bibbia ebraica come del cristianesimo.  Nella prima troviamo tratti significativi di universalismo e di pacifismo, soprattutto tra i profeti, e di critica ironica alla durezza e alla chiusura integralista (si veda il libro di Giona, su cui Ravasi si sofferma, pp. 102-104), Da qui sorge l’universalismo  cristiano, che costituisce dunque la conclusione naturale di un lungo percorso avviato all’interno dell’ebraismo. E proprio l’apertura a tutti gli esseri umani, e in particolare allo straniero, costituisce  il contenuto del terzo capitolo del libro di Ravasi, che  mostra in modo efficace le anticipazioni di questo atteggiamento nella Bibbia ebraica. Il passo di William Blake, citato nell’epigrafe di questo capitolo, dice: Ho cercato Dio e non l’ho trovato./ Ho cercato la mia anima/ e non l’ho trovata./ Ho cercato mio  fratello/ e li ho trovati tutti e tre.

w.m.

[Gianfranco RAVASI, La santa violenza, Il Mulino, Bologna 2019, euro 14]


Gianfranco Poma, biblista, è stato ed è ancora un punto di riferimento per generazioni di pavesi, cattolici e laici.

Walter Minella - l'autore di questa recensione - ha diretto la rivista "Ulisse" e attualmente è il curatore della rubrica di recensioni della Biblioteca Bonetta di Pavia.

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