La nuova “peste nera”: finitezza e finitudine


Mentre ciascuno di noi è impegnato nella lotta contro “la morte  nera” – per la maggioranza non è così eroica: basta stare in casa, mentre ai miei nonni e padri fu chiesto, da un giorno all’altro, di avviarsi verso il Carso o verso il Don! – occorre incominciare a ripensare il nostro futuro sociale, economico, politico, istituzionale. Covid-19 ha fatto saltare tutte le agende: internazionali, nazionali, politiche, economiche, di governo e di opposizione. Molti stanno scrutando nel futuro per ricostruire le nuove agende.
Qui voglio limitarmi a cercare di decifrare quanto succede dentro ciascuno di noi. I sommovimenti delle coscienze individuali, generati dai traumi della storia, producono mutamenti all’inizio impercettibili, ma di lunga durata, delle civiltà. Le ricerche storiche sul “dopo-peste nera” del Trecento sono suggestive al riguardo.
In primo luogo, abbiamo riscoperto la nostra finitezza individuale. Non è una percezione nuova. Da sempre ci risuona nelle orecchie l’eco dell’ammonimento a Adamo, nella Genesi 3.19: “…quia pulvis es et in pulverem reverteris” (sei polvere e in polvere ritornerai). Ciò che, invece, sembra nuova è l’accelerazione di un processo, che da tempo si è sviluppato in Occidente: quello dell’esorcizzazione e del nascondimento della Morte. Altamente simbolica è la fila di camion dell’Esercito che portano via dal Cimitero di Bergamo le bare dei nostri cari verso posti lontani, sottraendole all’abbraccio dei riti religiosi o civili. Dopo le pesti medievali e moderne, i sopravvissuti non tornavano furiosamente solo ai propri affari; correvano a costruire chiesette, a dipingere danze macabre, a scolpire nel marmo e nel legno. Era un tentativo estremo di ritessere lo sbrego nell’arazzo delle generazioni, un modo per richiamarle nella storia presente, dopo che i singoli erano stati coperti di calce nelle fosse comuni. Il legame con loro agiva come forza nel presente. Un modo per fare pace con la storia matrigna.
Oggi, queste morti senza riti generano una solitudine senza confini dei sopravvisssuti. In secondo luogo, il Covid-19 globale ci ha gettato in faccia la finitudine radicale della specie Homo sapiens. Finitezza è un fatto, finitudine è una possibilità di finire. Siamo stati abituati a presuppore che sì, l’individuo è mortale, l’umanità no. “Finitudine” significa che la specie umana non è necessaria al Pianeta, se non
costruisce le condizioni di possibilità della propria esistenza.  Il Covid-19 è un errore umano. E’ probabile che riusciamo ancora una volta a vincere la guerra biologica scatenata dal virus contro di noi,
ma la possibilità di una “crisi biotica dell’Olocene”, come teme Yuval Harari, va messa in conto.  Mentre la specie “sapiens” sogna, come Pico della Mirandola, di un uomo senza limiti e insegue trans-umanismi e post-umanismi, ingegnerie genetiche, nanobiotecnologie e intelligenze artificiali, è forse necessario che essa incominci a elaborare un’etica di specie, in cui un nuovo rapporto con il Pianeta
– che è il corpo dell’umanità – diventi oggetto di un imperativo categorico.

g.c.


Giovanni Cominelli, giornalista, è l'autore di questo articolo, pubblicato il 21 marzo 2020 su Santalessandro, settimanale online della Diocesi di Bergamo.

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