L'esperienza del dolore nella cultura occidentale. Una meditazione del filosofo Salvatore Natoli


Ho avuto il piacere di ascoltare le lezioni del Professor Salvatore Natoli, in varie occasioni. Non ho una formazione filosofica, sono soprattutto una lettrice desiderosa di cogliere il messaggio, i messaggi che i buoni libri racchiudono per farne oggetto di riflessione comune. Parole chiave come felicità, dolore, il buon uso del mondo racchiuse nei libri guida del Professor Natoli non potevano passare inosservate. Ho preso quei libri per farne oggetto di studio ma, solo ora, l’idea si è materializzata in azione ed ho così iniziato il mio viaggio nelle pagine, matita in mano. Perché proprio ora e non prima? Forse la ragione nei miei anni, in una maggiore consapevolezza del mio essere al mondo, nella ricerca di risposte a domande sempre più impellenti e difficili sul senso della vita. Il dolore: non una parola semplice, ma lacerazione, sofferenza, annichilimento della persona colpita. Non si può averne conoscenza senza esperienza.Conoscere il dolore perché se ne è vittima è avere una percezione del mondo molto diversa da quella abituale: il mondo appare come rovesciato. Il dolore, oltre certi limiti, è experimentum crucis; chi lo vive è sottomesso a prova. Il dolore ci investe, ci schiaccia, si erge a controprova del senso dell’esistenza. Quale il senso della vita? La risposta è difficile, richiede una profonda riflessione. Ci si potrebbe chiedere: Perché il dolore? Se capaci di astrazione e consapevoli di ciò che la vita presenta, del corso sinuoso che segue, in cui a tutti è dato di esperire il dolore, allora , e certo non è una consolazione, coglieremmo il legame tra il dolore di ognuno e il dolore universale. Forse saremmo aiutati ad uscire dal nostro isolamento, socializzando la nostra sofferenza. Il dolore sfugge al discorso ma chi soffre cerca le parole per rompere il muro di silenzio, per sentirsi meno solo e condividere con gli altri un’esperienza che non è solo sua. Quali le reazioni dell’uomo di fronte al dolore? Può sublimarlo come esperienza unica di crescita, vanificarlo come pura apparenza, percepirlo come ineluttabile; subirlo. Il comune senso del dolore non libera l’individuo sofferente dalla solitudine in cui è confinato ma allarga questa sua esperienza che altri hanno vissuto, vivono. E questo forse allevia la propria sofferenza: tutti e il sofferente in persona si sentono implicati da un vissuto di memoria e di attesa comuni. In tal modo la sofferenza si fa linguaggio, si rompe così, in qualche modo, l’isolamento. 

 

La difficoltà di trovare risposte

Dopo questa parentesi che interroga tutti noi, in una realtà in cui il dolore è il protagonista assoluto, dovremmo cercare risposte alle tante domande che il dolore, la sofferenza ci pongono:

Il dolore può essere accettato?
Può essere praticato come una virtù e vissuto come un dovere?
Si può confutare il dolore visto che è subito e, perciò , non può essere rifiutato?
Vi è una giustizia nel dolore?
È mai possibile trovare da soli risorse per affrontare, vivere il proprio dolore?

Nell’esperienza del dolore vi è l’io, nella sua individualità, l’io, la vittima. Il dolore è  un’esperienza cruciale perché non è che un’anticipazione della morte. Il dolore è sempre una diminuzione di sé, perciò contraddice il sé; il dolore è subito, non è scelto.

Un passo dal libro di Giobbe:

L’uomo, nato da una donna,
ha vita breve e piena di affanni.
Come un fiore sboccia ed appassisce;
fugge come l’ombra e non si arresta
e si disfà come legno fradicio,
come un vestito roso dalla tignola

(Gb., 14 vv 1-2)

Un dono sono, forse, le parole consolatorie di Epicuro per alleviare l’angoscia della morte: ”la morte non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte non ci siamo noi”.

Esperire il dolore è prendere consapevolezza dell’umana precarietà. Ma, nel dolore, nel lutto, non si è soli: il lutto è una forma di socializzazione del dolore: chi ne è colpito sente il calore della vicinanza.

Nelle pagine del suo libro il professor Natoli ci avvicina alle due culture che hanno influenzato l’Occidente nel modo di vivere il dolore: la cultura greca e la cultura giudaico-cristiana.

 

La metafisica del tragico nella cultura greca

La metafisica del tragico si fonda sulla consapevolezza dell’ineluttabilità della morte. Il dolore, un cammino verso l’ineluttabile. Per Eschilo gli uomini sono i vivi di un giorno.

Nel corso della vita di ognuno improvvisamente insorge il contrasto tra il prima e il dopo e l’insorgere è puramente casuale. Nel momento in cui si manifesta si diventa consapevoli che non si può sfuggire. 

In questo la percezione tragica dell’esistenza, la crudeltà della vita inseparabile dalla morte. La malattia non è un semplice accidente: ci si ammala perché si muore. È come se la vita fosse data in usufrutto. La si prende e la si lascia nell’eterno ritorno del ciclo: vita, morte, vita. Ma vita per altri da noi. 

Come affrontare questo ciclo del tutto naturale? Come porsi di fronte alla morte? Tutto dipende dal modo in cui la si affronta: in termini deterministici o in termini teologici. 

La vita è lotta per la vita e, proprio per questo, dolorosa. La morte è un elemento naturale ma non per questo la si deve accettare senza combatterla. In che modo combatterla? 

La consapevolezza della sua ineluttabilità è un invito a vivere con pienezza la vita che ci è data. Vita, morte, vita: è forse consolatorio che ad ogni fine segua un inizio, una nascita? L’alternarsi di vita, morte, vita non cancella l’angoscia in chi sa che non ci sarà più in quanto individuo. Cancellato per sempre. La tesi di Epicuro, ripresa poi da Lucrezio, non è del tutto consolatoria, anche se è vero che colui che non è più non può divenire infelice.

L’uomo ha sempre paura di dover morire. La paura non è solo nella consapevolezza del limite estremo, la paura è una presenza contro cui combattere nel momento in cui siamo colpiti dalla malattia, dalla sofferenza, dal dolore. La mentalità tragica interpreta la realtà come lotta senza fine nell’eterno fluire del tutto. Impossibile sfuggire al dolore.

Nella Poetica di Aristotele si esclude dalla tragedia l’uomo integerrimo, nobile. Se chi è nel bene diviene infelice, schiacciato dal dolore, ingenera nello spettatore un sentimento di rifiuto, allontanandolo da una riflessione purificatrice, catartica. Ma, nella tragedia, vi è sempre un alone di ambiguità. Il dolore si fa tragedia quando l’infelicità può essere rappresentata insieme come prezzo giusto ed iniquo, come una punizione gratuita e meritata.

Il dolore non è che un metro di misura dell’umano agire: se non ci si arrende, se si lotta contro, se si riprende a spingere il masso verso la cima come Sisifo, pur nella consapevolezza che cadrà, si supera l’annichilimento che nasce dalla certezza della precarietà della vita. 

La felicità non è uno stato originario ma una conquista nella aleatorietà della vita.

Come elaborare il lutto, come non chiudersi in se stessi? Investire nella ricerca della leggerezza. Come? Simulare la gioia, allora? Perché no, se questo aiuta a non soccombere al dolore. Il Simposio di Platone racchiude il gusto greco per l’ebbrezza individuale e collettiva […] dove la gioia effettiva si mescola a quella simulata, dove si è allegri per scacciare la pena

 

La visione del mondo ebraico - cristiana

L’esperienza di Dio è al centro della tradizione ebraico - cristiana, una chiave di lettura del patire nella cultura occidentale insieme alla metafisica del tragico.

L’esperienza di Dio è la coesistenza di un’incalzante e inseparabile presenza e di una altrettanto immane e sovrana distanza. Impossibile proporzionare Dio all’uomo. Il problema non è quello dell’esistenza di Dio ma dell’esperienza che si ha di Lui.

Le due visioni del mondo, quella tragica e quella biblica, hanno punti in comune ma restano estranee nella lettura del dolore. Nel campo della tradizione ebraico - cristiana è essenziale fermarsi sul ruolo della Speranza: capacità assoluta di sperare contro ogni disperazione; in un’attesa oltre ogni limite umano. Si giunge sino ad abbracciare la speranza dell’impossibile.

Il Dio d’Israele, il Dio biblico, è il Dio vivente, il Dio del patto con il popolo eletto: confidare in Lui è naturale, disperare è colpa. Colpa in quanto rifiuto della speranza in Lui, rifiuto della relazione. Quanto lunga l’attesa? Il testimone fedele, per quanto lunga sia l’attesa, potrà sempre affermare che la salvezza ci sarà. A condizione di una predisposizione dell’animo, un’invocazione, una preghiera rivolta a un Tu: un segno con cui si ri-conosce chi già si conosce. Dio è sempre presente nella nostra vita ma non catturabile.

Il Dio d’Israele è il Dio dell’alleanza: la sua irruzione nella storia è sempre possibile. Quando? In un punto inatteso della storia. Da quel punto una nuova attesa e un nuovo futuro.

Il Nuovo Testamento si lega all’Antico: l’attesa è colmata dall’arrivo di Gesù: l’alleanza si completa con una nuova idea: il compimento. 

Così viene alimentata la speranza di salvezza al di là del dolore. Non si tratta di pura fede ma, precisa il professor Natoli, di fiducia nella fedeltà di Dio al fianco dell’uomo.

La crudeltà della vita è un segno di elezione; attraverso la speranza l’uomo si riscatta, fiducioso nella promessa che Dio è al suo fianco.

Non per questo il dolore è cancellato, anzi può rasentare la follia, l’abiezione; ma il silenzio di Dio non è abbandono: nel fondo resta la confidenza in Lui. Così per chi ha una fede salda. L’uomo, nella sua imperfezione, è chiamato a rispettare il patto perché la promessa si avveri.

Quali le risposte al trionfo del male, della sofferenza, della morte nel mondo? 

La fiducia, una ferma fiducia nella salvezza. Per i cristiani la salvezza è nel Cristo sulla croce.

Nella metafisica del tragico il dolore è nell’originario dispiegarsi di crudeltà e innocenza che è nella natura stessa, nel suo eterno ciclo di nascita – morte – nuova nascita. Nella dimensione tragica l’uomo cerca di allontanare da sé il male, il dolore e, nel vano tentativo di opporsi, rasenta a volte la follia. 

Nella trasgressione di Adamo, il primo padre, ogni uomo guadagna il significato della propria colpa. Questa concezione della colpa, frutto dell’errore, permette all’uomo, ad ogni uomo di trovare una giustificazione razionale all’irrazionalità della sua sofferenza ma gli consente anche di sperare nella salvezza grazie alla misericordia divina.

 

Giobbe  o l’enigma del male

Sempre le stesse domande: Perché si soffre? La sofferenza ha un senso? Se la sofferenza è frutto di una colpa allora ha un senso. Ma quale il senso di una sofferenza senza colpa?

E Giobbe? Vi sono uomini dalla condotta esemplare, che, senza ragione alcuna, soffrono. La sofferenza è vissuta come una vera ingiustizia. Un dolore non interpretato non è neppure vivibile. In questo contesto si pone la figura di Giobbe posto di fronte all’enigma del dolore. Il tema centrale del Libro non è il dolore ma la giustizia. Giobbe non trova in sé ingiustizia, perché dunque è vittima? Dove la colpa?

Egli mi pesi sopra una bilancia giusta
E Dio conosca la mia integrità

Inquietante per Giobbe l’esperienza di un dolore ingiustificato. Giobbe deve rompere il silenzio di Dio, deve sapere perché. E Dio rompe il silenzio senza rispondere alle domande ma ponendo altre domande: Giobbe non può porre il suo dolore sul piano della retribuzione: Dio è perfezione e ordine, Dio tiene a bada il male, la Creazione è perfetta. Se l’irrazionale prevale è perché le forze del male si sono fatte spazio sulla Terra, mettendo in dubbio la Perfezione e questo giustifica la sofferenza. Dio non può chiarire perché; impossibile togliere il velo al mistero, all’insondabile. A Giobbe non spetta che un dovere: dimostrare una fiducia incondizionata in Dio. Il Dio che risponde è onnipotente e misterioso, in Lui si deve porre una fiducia incondizionata. In preda al dolore Giobbe potrebbe essere sfiorato dal dubbio: se il male colpisce il giusto e Dio non lo impedisce, Dio è inessenziale? Al contrario Giobbe è colui che sa aspettare, il tollerante, il paziente che resiste al dolore.

 

Qohélet Tutto è vanità, fiato sprecato

Altre pagine della Bibbia, dal “Qohélet” o “L’Ecclesiaste”, sono analizzate dal Professor Natoli per spiegare ciò che per l’uomo è inspiegabile: il dolore. Marginale nel Qohélet l’azione salvifica di Dio. Ma perché il dolore? Quale il senso dell’esistenza? L’uomo è subito messo di frionte alla caducità della vita, all’esperienza del dolore. Quanto l’uomo ha costruito non sarà lui a goderlo. Perché dunque affannarsi? In Qohélet si fa spazio una profonda, tetra malinconia. Tutto è noto a Dio, l’uomo brancola nel buio, ignora quali siano i suoi tempi, cosa Dio esiga da lui. Fatica, delusione, dolore segnano la sua vita e, infine, giunge la morte. Lo smarrimento, le non risposte nell’arco di vita che ci è dato: come affrontare tutto questo? Nel Qohélet emerge una via di condotta:

Osservare i precetti non tanto per la salvezza quanto come grande arte di esistere

Nella consapevolezza che tutto è vano, anche il dolore perde d’intensità, non è una spinta a trovare le forze per opporsi… Qohélet pessimista, indifferente? Non è proprio così: Qohélet trova il modo di affrontare con saggezza la vita pur nel silenzio di Dio. La morte è parte integrante della vita e, per questo, bisogna saper vivere il proprio presente:

“Niente c’è di meglio che l’uomo si rallegri del suo lavoro perché questa è la sua sorte (Qo. 3.22) e, per non soccombere, per vivere con serenità la vita che ci è data:

Su, mangia allegramente il tuo pane
E di buon umore bevi il tuo vino
Perché a Dio è piaciuta la tua opera

Guardando il mondo non è infrequente notare che il giusto soffre e muore prima mentre il malvagio se la gode. Non per questo Qohélet si allontana dal rispetto della legge, dal bisogno di vivere nel timore di Dio. Nessuna garanzia di una giusta retribuzione, nessuna garanzia di salvezza, ma la vita non si spreca, non si getta alle ortiche.

Il dolore allora, nel silenzio di Dio, nella lontananza, può essere letto come un segno: la sofferenza come un’illuminazione, come una disposizione totale alla volontà di Dio, imperscrutabile. Una filosofia di vita che può trovare espressione in questo passaggio

Ogni cosa ha il suo momento
e ogni faccenda ha il suo tempo […]
tempo di nascere
e tempo di morire

Si ha paura della morte perché pone fine alle gioie umane ma non si pensa mai che essa pone fine anche alle paure. La brevità della vita è uno sprone a viverla intensamente. 

Una domanda si pone a tutti noi in un presente in cui con tutti i mezzi si cerca di prolungare la vita, quasi a voler chiudere la porta alla morte: cosa è più importante per noi: la durata della vita o la qualità della vita stessa? Siamo più felici con la morte di quel che saremmo stati senza di essa? 

A conclusione di questo percorso, quale il nostro modo di affrontare la vita nella consapevolezza dei limiti, delle tante fragilità che ci caratterizzano e della morte? Credo possa essere questo: Vivere bene i nostri giorni, conoscerci per poter abitare bene il mondo.

Obbedire alla propria coscienza, al di là  del possedere o non possedere la fede, è un modo per affrontare la vita, viverla bene.

La vita vale la pena di essere vissuta anche se tutti facciamo esperienza del dolore.

g.c.

[Salvatore Natoli, L'esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano 2016, pp. 387, € 13]


Giovanna Corchia è stata dal 1966 al 2005 docente di Lingua e Letteratura Francese: prima Istituto Professionale Cossa, poi Istituto Tecnico Bordoni a Pavia, infine negli ultimi 15 anni, Liceo Scientifico “Paolo Giovio” a Como. Ha altresì svolto insegnamento da volontaria in Carcere – Casa Circondariale di Como – e di mediazione linguistica con le seconde generazioni in una scuola primaria di Como, prima, poi di Cava Manara (Pv) dal 2005 al 2018. Animatrice di gruppi di autoaggiornamento in Linguistica applicata, didattica dell’insegnamento delle Lingue con il supporto della facoltà di Lettere e Lingue dell’Università di Pavia con esperienze di sperimentazioni e innovazioni didattiche. Membro del gruppo promotore dell’Associazione Culturale Italia – Francia (ACIF) di Pavia. Ha avviato numerose attività di animazione culturale: corsi per l’AUSER di Como e presentazione di scrittori, per 18 anni presentatrice di spettacoli del Piccolo di Milano per un gruppo di abbonati di Como. Da due anni si occupa di corsi all’UNITRE di Pavia. A questo link il programma del corso tenuto in UNITRE per l'Anno Accademico 2019/2020.

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