Gli haiku: attimi scintillanti di poesia


“Faccio raccolta di attimi”. Era questa la risposta fulminante del protagonista di un libro di Heinrich Böll a chi gli chiedeva cosa facesse nella vita.

Quel romanzo qui non centra, ma le raccolte di attimi invece sì. Mi sembra una definizione perfetta per queste tre piccole antologie di poesia haiku. Perché gli haiku sono davvero attimi, componimenti brevissimi che si leggono subito, scanditi in tre versi di cinque, sette, cinque sillabe. Diciassette in tutto, una manciata di parole soltanto. E’ la più piccola forma di poesia esistente. Ma con radici profonde, ben piantate nel passato remoto della cultura nipponica. Originariamente lo haiku costituiva solo la prima strofa di un componimento più lungo, ma in seguito, a partire dal sedicesimo secolo, questo genere acquistò dignità e importanza crescenti, fino al riconoscimento di forma poetica indipendente. Il merito della sua canonizzazione va in gran parte attribuito a Matsuo Bashō (1644-1694), il poeta che meglio ha definito l’essenza dell’haiku, che si compone di semplicità, leggerezza e grande attenzione alla natura. Donde gli haiku, istantanee elegantissime di un’emozione, di un’avvenuta vibrazione con la natura, in ogni sua componente, anche la più piccola o insignificante. E’un piccolo miracolo che avviene quando il poeta e la neve, o una farfalla o una foglia ingiallita, per un istante vibrano insieme, con la stessa frequenza. A dirci che siamo parte di un tutto più grande, immersi in un divenire comune, a sua volta scandito dal ciclo delle stagioni.

Ma qualche buon esempio credo valga più di tutte le mie parole. Eccone alcuni tratti dalla raccolta di Matsuo Bashō, qui la stagione è la primavera:

 

In mezzo al campo
e pienamente libera
canta l’allodola.

Svegliati, svegliati!
E diventa amica mia
farfalla che dormi.

Petalo dopo petalo
cadono le rose gialle –
il rumore del torrente.

 

Tradizionalmente, ogni haiku è caratterizzato da un termine (kigo) che indica la stagione in cui si colloca. Il che non è un vezzo, è importante, poiché è soltanto lì, all’interno del ciclo delle stagioni, che la natura si mostra. Fuori non potremmo vederla, o forse neppure ci sarebbe.

L’allodola, la farfalla e le rose rimandano senz’altro alla primavera, fluiscono con quella, così come le foglie rosse con l’autunno o la neve con l’inverno.

 

Si oscura la montagna
e ruba il rosso
alle foglie dell'autunno.

Livida neve sotto la luna
colora di blu
la tenebra notturna.

Neve se ti penso mia
come diventi lieve
sul mio cappello di bambù!

 

Tuttavia, per quanto apparentemente facili nella loro immediatezza, gli haiku esigono una lettura attenta. Al pari degli antichi dipinti giapponesi, anche qui tutto è a mezzetinte, sfumato, appena accennato. Come nel caso degli haiku che seguono, peraltro bellissimi.

Il primo, di Bashō, fu scritto quando, nel suo ascetico vagabondare, il poeta giunse nei pressi delle rovine di un castello, teatro di una passata sanguinosissima battaglia. Si sedette a terra, sotto il suo cappello di bambù, e pianse a lungo.

O nel caso ancora di quello a fianco, ermetico e profondo anche più il pozzo-specchio che restituisce l’immagine (la coscienza?) del poeta.

 

Ah! erba d'estate
tutto ciò che resta dei sogni
di tanti guerrieri.

Nel buio di un pozzo
ravviso il mio volto.

 

Certo, nessuna traduzione, per quanto buona, potrà mai valer quanto il testo originale. Impossibile rendere la metrica, i ritmi, le rincorse gioiose tra gruppi di consonanti doppie, i giochi di parole di una lingua tanto diversa dalla nostra.

E si perdono anche gli effetti grafici dei sorprendenti ideogrammi giapponesi, che sembrano più dipinti che scritti.

Ma quel che resta vale comunque la lettura. Se davvero gli haiku sono vibrazioni dell’anima, allora la loro eco struggente può superare ogni distanza, culturale o temporale che sia, e raggiungerci, in una moltitudine di smussate, carezzevoli scintille, di quelle che illuminano e fanno bene all’anima.

A condizione, come esortava Ungaretti, altro grande poeta, e nostrano questa volta, che non si gridi più, che si trovi un po’di silenzio. Perché servono le giuste condizioni, fuori e dentro di noi, prima di aprire questo genere di libri. A voler estremizzare il concetto fino all’ovvietà, si potrebbe dire che un libro haiku non dovrebbe mai essere letto in treno o in metropolitana. E neppure a letto, nonostante il probabile maggior silenzio. Per ragioni diverse e altrettanto ovvie.

Invece sarebbe decisamente meglio che lo facessimo su una spiaggia del nostro bel Ticino o in un prato di montagna. Quando si può, naturalmente. Cioè quasi mai.

Anche se, a ben pensarci, sarebbe proprio bello vedere le rive del fiume costellarsi di libri di poesie e dei loro lettori.

Ma questo è solo un sogno, o lo spunto per un haiku nella stagione dell’estate. Se ne fossi capace.

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m.t.

[Matsuo Bashō, Centoundici Haiku, ed. La Vita Felice, Pag. 90, Euro 10]

[Haiku, il fiore della poesia giapponese da Bashō all’ottocento, ed. Mondadori, Pag. 288, Euro11]

[Cento Haiku, ed. Tascabili Poesia Guanda, Pag. 185, Euro 10]


Marco Tornielli, classe 1958, giornalista, apparentemente in buono stato. Ha scontato gran parte della sua esistenza professionale nel settore farmaceutico, occupandosi di marketing e comunicazione. Della qual cosa non mostra di andare particolarmente fiero. Si considera invece un buon alpinista e di fatto lo si può spesso trovare in val Masino, dove pare sia di casa. Infine, adora perdere tempo con i libri. Non c’è altro.

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