Viaggio nella notte della schizofrenia. Un romanzo di Giorgio Boatti


Ci sono alcuni libri, pochi, che ti colpiscono in modo tale che non riesci a toglierteli di mano, fin quando non li hai finiti. A questa ristretta schiera appartiene, per me, Abbassa il cielo e scendi, un romanzo-memoria scritto da Giorgio Boatti. L’autore è molto noto tanto nella provincia pavese, come collaboratore assiduo del quotidiano locale, quanto a livello nazionale tra le persone colte, come autore di ricerche fondamentali sulla storia del Novecento italiano (ricordo almeno Piazza Fontana. 12 dicembre 1969: il giorno dell’innocenza perduta e Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini). Una produzione di tutto valore, quindi. Ma quest’ultimo libro è eccezionale anche rispetto a uno standard così elevato. Il protagonista è Bruno, il fratello dell’autore, un uomo intelligentissimo la cui vita fu stravolta dall’insorgere, dopo i vent’anni, di una forma di schizofrenia. La descrizione della vera e propria via crucis che egli dovette percorrere, e delle ripercussioni sull’ambiente vitale circostante, è condotta con precisione e profonda umanità. Potremmo dire che il libro si muove in un territorio delicato, delimitato da quattro punti cardinali: le manifestazioni della schizofrenia, il tentativo di Giorgio di interpretare il modo in cui essa veniva elaborata da Bruno - bellissimo per esempio il suo commento al biglietto che trovarono in tasca del fratello quando lo salvarono dal primo tentativo di suicidio: Così le stelle luccicheranno ancora. In cielo (pp. 71-72) -, le reazioni timorose e sbigottite della famiglia – una bella famiglia popolare, forte e antica, ma naturalmente impreparata alla catastrofe -, le terapie proposte dagli psichiatri, capaci di placare per via chimica le manifestazioni più clamorose della malattia mentale ma inadeguate a cogliere dietro i sintomi della follia la persona viva e sofferente. In sintesi, potremmo definire questo romanzo anzitutto come un lettera al fratello, recentemente scomparso. Ma, poiché la vita di Bruno si intreccia con quella di Giorgio, compaiono anche, necessariamente, accenni alla biografia dell’autore (molto intensi, in particolare, i riferimenti, nella prima parte del libro, alla vita quotidiana in un paesino della campagna lombarda negli anni Cinquanta).

Ma questo è solo lo scheletro del libro. Per capirlo veramente credo che dovremmo cominciare dal titolo, Abbassa il cielo e scendi: è tratto dal verso 5 del Salmo 144 (143). E, se facciamo caso ai titoli dei capitoli (Apri le mie labbra, Porgi l’orecchio, La pietra scartata, Con cuore doppio, Intorno a me sia la notte, Sul suo dorso hanno arato, Anche il passero trova una casa …) ci rendiamo conto che sono (tranne che nel caso dell’Epilogo) invocazioni tratte dalla Bibbia ebraico-cristiana. Sono tanto belle che verrebbe la voglia di citarle tutte: una corona di poesie, una cornice sacra che abbraccia tutto il libro. Non si fraintenda però il riferimento al sacro, non si pensi a nulla di retorico o ‘elevato’. Lo stile di Boatti, che ho molto ammirato, è screziato, variopinto, mobile, sempre attaccato al concreto. Ma insieme aperto a quella che nel gergo filosofico si direbbe l’ulteriorità. Si veda per esempio la descrizione assai precisa del manicomio di Voghera negli anni Sessanta, cioè in un momento in cui alla vecchia concezione reclusoria di manicomio stava per subentrare quella ‘umanistica’ di Basaglia (pp. 98-108). Questo capitolo è preceduto da un altro, in cui troviamo la storia di Gramion (pp. 95-97), “un contadino taciturno che viveva da solo in una cascina abbarbicata alla costa” e che finisce al manicomio di Voghera, da cui non tornerà più. La scena in cui si presenta a casa di Giorgio e, rivolto a Mamma Federica, le dice “Federica ho fame”, la risposta della mamma, il contraccambio successivo di Gramion, fino all’epilogo tragico - questa storia di un uomo emarginato, povero, incapace di articolare razionalmente sentimenti e passioni, eppure con una sua profonda, nascosta umanità è resa da Boatti in un modo semplice, intenso e grande: una luce limpida piove su queste figure - viene in mente Accattone di Pasolini, in cui la Passione secondo Matteo di Bach accompagna e commenta la vita e la morte di un sottoproletario romano. Nella prima parte del libro, il registro narrativo è estremamente variegato. Talvolta epico-ironico: la scoperta da parte del bambino Giorgio della radio (pp. 33-35) è uno straordinario, brioso racconto degno di figurare in ogni antologia italiana, storica o letteraria (a me ha fatto venire in mente l’incipit fulminante di Cent’anni di solitudine: ‘Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendia si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio’). Talvolta l’intonazione è lirica: il brano che comincia con ‘Ho sperimentato tutti i tipi possibili di annegamento’ (p.9) è una vera e compiuta poesia. Talvolta il tono puramente nostalgico assume una valenza simbolica: così la fucilazione del miglior amico del bambino Giorgio, il cane di casa ladro di uova prima e di galline poi, diventa il simbolo di un passaggio radicale, di un cambiamento del mondo: “Il mondo che è stato mio non c’è più”.

Ma, come ho detto, il centro del libro è costituito dal ritratto del fratello Bruno. A lui Giorgio erige un monumento, di pietà e di amore fraterno, che rimarrà nel tempo. Perché non è la schizofrenia la protagonista del libro, ma l’uomo Bruno. Il libro consiste in un resoconto minuzioso, dettagliato, non di una malattia, ma della vita di un uomo: un uomo malato, ma che conserva tutta la sua umanità. L’affetto del fratello scrittore fa emergere la profonda dignità di quest’uomo - invaso da una serie di voci, di pensieri ossessivi, di fantasie, di allucinazioni, ma protagonista sempre di una storia umana: con varianti tragiche (i ripetuti tentativi di suicidio, le richieste insistenti al fratello di aiutarlo a porre fine ai suoi giorni), che talvolta assumono la forma del tragicomico (le denunce presso i datori di lavoro del fratello di presunte, e ovviamente false, imprese criminali di Giorgio) o amaramente comiche (la lista minuziosa delle sue masturbazioni), solo alla fine illuminate, per un breve tratto, da una qualche serenità (l’amore con Gilda, una signora degente come Bruno in una casa di riposo). A mio conoscenza, non ricordo nella letteratura italiana una descrizione tanto precisa e profonda del vissuto umano della malattia psichiatrica, vista, per così dire, dall’interno. Citerò solo un passo: “ … sono voci decise a comandare la sua vita. Lo rimproverano. Gli danno ordini perentori, scanditi ossessivamente, per decine e decine di volte, sempre le stesse parole ripetute in un susseguirsi di voci diverse. A volte si concateno come in una staffetta, altre si sovrappongono. Di sovente sono voci virili. Di ogni età, ma spesso di anziani. Poi c’è anche una moltitudine di donne diverse che vuol dire la sua. E anche bambini. A volte ridono di lui. Altre volte strillano. Urlano. Sussurrano. Implorano.” (p. 118).

La storia di Bruno, e di Giorgio, si svolge in larga misura in una città non nominata eppure riconoscibilissima, che è Pavia. Molti pavesi ricorderanno la figura pittoresca del ‘vecchio prete’, collaboratore del Corriere della Sera e rettore del Collegio Borromeo, che, interpellato alla fine degli anni Sessanta dal papà di Giorgio, ‘un uomo vero e giusto’ angosciato per le posizioni estremiste del figlio, gli dà una risposta che è un vero e proprio saggio di umanesimo cristiano (pp. 81-88). E forse qualcuno riconoscerà il “vecchio prete” ritratto nel suo modo di dir messa (pp. 105-106): “C’è una chiesa antica e silenziosa, in cui vado ogni domenica. Ci dice messa un vecchio prete. La presiede in un modo che ti fa perdonare tutte le messe inutili, umilianti, sciatte, insultanti che hai collezionato. In lui nessun gesto è fuori posto. All’improvviso, con assoluta naturalezza, tutto diventa necessario ed essenziale …”. Perché non citarlo, perché non chiamare anche la città con il suo nome? Penso che ci sia una spiegazione: per non affondare nella palude del pettegolezzo provinciale una storia umana che, nella sua particolarità, è universale. Forse che ai lettori delle storie ferraresi di Bassani interessa scoprire chi erano, nella cronaca locale, i protagonisti o i comprimari? Di queste persone realmente esistite ci coinvolge, ci parla ancora, la rappresentazione poetica dello scrittore. Abbassa il cielo e scendi è il racconto di una storia umana che, avvenuta in un luogo e in un tempo determinato, è trasfigurata dalla memoria e dalla poesia in un accadimento universale. In questo senso, bene ha fatto Boatti a chiamare “romanzo” questo suo testo.

Il libro - della cui ricchezza ho dato solo un minimo assaggio – deve essere costato un grande sforzo all’autore: uno sforzo non semplicemente intellettuale, ma soprattutto emotivo, un vero e proprio ‘cambiamento di mente’. Che è consistito nel non vergognarsi di Bruno, non nascondendolo agli altri e a se stesso, parlandone apertamente, intensamente, con finezza e passione. Potremmo dire che il libro nasce da una riconciliazione con se stesso, con il proprio e l’altrui limite - da una accettazione di sé e del mondo non inerte, apatica, né tanto meno egocentrica e chiusa, ma impegnata nella vita non ‘per forza’ ma per intima convinzione. E’ dunque la testimonianza di un amore fraterno che è una conquista, non un dato naturale ed eterno (p. 162): perché un fratello, o una sorella, può essere il tuo peggior nemico, pieno di gelosia, avidità, competizione; oppure un perfetto estraneo; certe volte – e forse per lo più – una presenza amica; talvolta addirittura il tuo migliore amico. Quest’ultimo è stato il caso di Giorgio nei confronti di Bruno: ma è stata una conquista difficile, passata attraverso innumerevoli difficoltà, tentazioni di abbandono, reazioni impreviste di Bruno, risposte alle sue provocazioni – un processo faticoso che ha sicuramente arricchito Boatti come uomo e come scrittore, facendogli scoprire ‘l’altra faccia della luna’, le dimensioni nascoste della realtà di fronte a cui in genere passiamo indifferenti, chiusi nella nostra gretta, presunta autosufficienza. Un ragazzo down, ascoltando una presentazione del libro, lo ha commentato così: questo è un libro scritto con il cuore. A mio parere, ha fatto centro.


[Giorgio BOATTI, Abbassa il cielo e scendi, Romanzo, Mondadori, Milano 2022, euro 19,50]


Walter Minella - l'autore di questa recensione - ha diretto la rivista "Ulisse" e attualmente è il curatore della rubrica di recensioni della Biblioteca Bonetta di Pavia.

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