Due saggi che fanno onore alla cultura italiana


Viviamo in un brutto periodo storico, che ricorda per certi versi gli anni Trenta del Novecento: a partire dagli Stati Uniti si è affermato nell’opinione pubblica di molti paesi un sentimento composito, fatto di ipersemplificazione di problemi complessi, riaffiorare di vecchi pregiudizi e stereotipi mille volte confutati, ritorno del capro espiatorio – cioè di qualcuno o qualcosa a cui attribuire ogni colpa. Il tutto in un contesto di imbecillità di massa, favorita non dall’uso ma dall’abuso dei social media, se e in quanto sono un sostituto dell’informazione accurata e della formazione profonda. Insomma, assistiamo a un paradossale trionfo, in una civiltà ipertecnologica e informatizzata, dell’ignoranza presuntuosa e tracotante. Allora, una delle forme di resistenza consiste nel continuare a coltivare un’idea antica di decoro intellettuale, di serietà degli studi, di chiarezza analitica nell’argomentazione. Per questo fa piacere segnalare due libri di saggistica molto diversi ma che possono essere accomunati perché condividono queste caratteristiche, cioè sono scritti in modo elegante, raffinato e insieme amichevole verso il lettore. Sono testi che qualsiasi persona colta, almeno in Europa, leggerebbe con piacere (o, speriamo, leggerà, se verranno tradotti). Si tratta di Le dieci parole latine che raccontano il nostro mondo di Nicola Gardini e di Una variazione di Kafka di Adriano Sofri.

Il libro di Gardini, docente di Letteratura italiana e comparata all’Università di Oxford, è un’indagine sulla sopravvivenza e sulla metamorfosi delle parole latine in italiano, ma si potrebbe anche dire nelle lingue neo-latine, e si potrebbe aggiungere anche in quelle germaniche, a partire da quella particolarissima lingua germanica che è l’inglese, ricchissimo di apporti neolatini (di cui, peraltro, neanche le lingue slave sono prive). L’autore prende in esame 10 parole latine: ars, signum, modus, stilus, volvo, memoria, virtus, claritas, spiritus, rete. Ne mostra le sfaccettature di significato, tanto nell’uso quotidiano quanto nell’invenzione poetica o letteraria, sia nella lingua e letteratura latina sia in quelle da essa derivate o ad essa collegate. Enorme è la cultura, non solo classicistica, ma più in generale umanistica, dispiegata dall’autore. Ma parlare di cultura è limitativo: si dovrebbe in realtà parlare di gusto, di eleganza intellettuale. E infatti raffinatissime sono le traduzioni che l’autore compie in proprio di molti dei passi citati. Profonde e – cosa molto rara – insieme lievi sono le riflessioni che questi nodi concettuali suscitano nell’autore e, di conseguenza, nel lettore. Nei limiti necessariamente ristretti di una recensione ne citerò una, che mi piace anche perché ricorda il più grande filosofo italiano del Novecento, “il sommo” (p.267) Benedetto Croce. “Lo Spirito”, dice Gardini, “è il progresso della civiltà e dell’umanità, e ognuno di noi è chiamato a sostenerlo, contrastando la forza del male o, come dice Croce, l’Anticristo”. Segue una citazione di don Benedetto: “Il vero Anticristo sta nel disconoscimento, nella negazione, nell’oltraggio, nell’irrisione dei valori stessi, dichiarati parole vuote fandonie o, peggio ancora, inganni ipocriti per nascondere e far passare più agevolmente agli occhi abbagliati dei creduli e degli stolti l’unica realtà che è la brama e cupidigia personale, indirizzata tutta al piacere e al comodo. Questo è veramente l’Anticristo, opposto al Cristo: l’Anticristo distruttore del mondo, godente della distruzione, incurante di non poterne costruire altro che non sia il processo sempre più vertiginoso di questa distruzione stessa, il negativo che vuol comportarsi come positivo ed essere come tale non più creazione ma, se così si potesse dire, dis-creazione” (L’Anticristo che è in noi, 1947). (p. 168). (Una parafrasi plebea all’alto testo di Croce sull’Anticristo me l’ha fornita il libraio di una località turistica a cui avevo chiesto un libro intitolato, più o meno, “le dieci parole chiave della civiltà”. Mi ha risposto, sorridendo compiaciuto della sua arguzia: soldi, soldi, soldi ….).

In sintesi, se è vero, come diceva Wittgenstein, che i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo, si capisce immediatamente l’utilità di questa guida allo studio della lingua latina (che è strettamente imparentata con quella greca) in quanto radice fondamentale della civiltà occidentale (insieme, naturalmente, alla radice giudaico-cristiana: Atene-Roma e Gerusalemme). Se vogliamo capire chi siamo è necessario, o almeno molto utile, sapere da dove veniamo, partendo dagli strumenti del comunicare.

Il secondo libro è una specie di giallo filologico, e insieme un percorso di riconoscimento nel passato di maestri e amici-amiche. L’autore parte dalla lettura di una traduzione italiana, col testo a fronte, del geniale racconto di Kafka Die Verwandlung (che tradizionalmente viene reso in italiano come La Metamorfosi): tutti ne conosciamo almeno la trama, che parte dalla trasformazione, in una notte, dell’aspetto esteriore dell’impiegato Gregor Samsa, che rimane interiormente sé stesso, in uno scarafaggio (Mistkäfer dice Kafka, propriamente scarabeo stercorario). Sofri, che conosce bene il tedesco, nonostante le sue modeste affermazioni in contrario, trova una strana imprecisione confrontando la traduzione italiana con il testo tedesco a fronte: perché la traduzione italiana, opera di una grande maestra come Anita Rho (1906-1980) parla dei “riflessi lividi della tranvia elettrica” mentre invece il testo tedesco parla di Straßenlampen, cioè di lampioni? Come è possibile, si chiede Sofri, scambiare dei lampioni per una tramvia elettrica? Un errore, quasi incredibile, della traduttrice italiana? Incuriosito, Sofri si mette in moto: consulta le traduzioni della Metamorfosi (che in realtà meglio sarebbe rendere come La trasformazione) in turco (miracoli del traduttore automatico Google!), in inglese, in francese, in spagnolo, in persiano (!), in olandese, in portoghese … e ritrova dappertutto lo stesso errore. Non diremo al lettore quale sia la probabile risoluzione dell’enigma. Perché intanto avremo seguito l’autore in questo pellegrinaggio nell’alta cultura del Novecento mondiale, avremo scoperto perché Borges non fece, contrariamente a quel che si crede comunemente, la prima traduzione spagnola del capolavoro di Kafka, avremo incontrato una figura straordinaria come Margarita Nelken, “ebrea, donna, un po’ artista, intellettuale, comunista, puttana – traduttrice anche” (18) – (e infatti scopriremo che fu lei la prima a tradurre il capolavoro di Kafka in spagnolo). Conosceremo il professor Juan Fló dell’Università di Montevideo, troveremo una foto della casa di Kafka, leggeremo brani delle sue lettere alla fidanzata Felice, consulteremo i Tagebücher (Diari) di Kafka … E incontreremo l’alunno di Carla Melazzini, ‘maestra di strada nei quartieri difficili di Napoli’ (p.136) che timidamente (e genialmente) chiese, recatosi nella biblioteca d’istituto il giorno dopo che la professoressa aveva parlato in classe di questo racconto: “Professore’, lo tenete qui il libro dello scarrafone?” (p. 137).

w.m.

[Nicola Gardini, Le dieci parole latine che raccontano il nostro mondo, Garzanti, 2018]

[Adriano Sofri, Una variazione di Kafka, Sellerio, Palermo, 2018]


Walter Minella - l'autore di questa recensione - ha insegnato storia e filosofia nei Licei. Tra le sue pubblicazioni: Il dibattito sul dispotismo orientale. Cina, Russia e società arcaiche (1991). Ha tradotto il breve saggio di Varlam Tichonovič Šalamov, il grande testimone dei Gulag, Tavola di moltiplicazione per giovani poeti (2012), ha curato la pubblicazione del libro postumo di Pietro Prini, Ventisei secoli nel mondo dei filosofi (2015) e ha scritto la monografia Pietro Prini (2016).

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